“Queste storie non furono mai, ma sono sempre.”
(In epigrafe a Le nozze di Cadmo e Armonia di R. Calasso)
Wanda Maximoff è una potente strega che non sa ancora di essere una strega. In preda al dolore per la morte del sintezoide Visione, prende in ostaggio un’intera cittadina del New Jersey, Westview; qui usa i suoi poteri per creare una bolla di realtà alternativa in cui la sua famiglia torna a vivere felice come in una vecchia sitcom americana.
Ogni cosa, nella piccola Westview, dai cittadini ai negozi agli interni fino agli eventi pubblici, risponde ai desideri di Wanda, alla sua messinscena televisiva. Nel frattempo l’anomalia attira le attenzioni dello S.W.O.R.D., agenzia d’intelligence antiterroristica interessata a riattivare Visione; nonché quelle di Agatha Harkness, perfida strega che vorrebbe rendere Wanda Maximoff una Scarlet Witch – la strega del caos che distruggerà il mondo – per poi assorbirne i poteri.
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Le prime quattro puntate di WandaVision sono un’immersione nella mente di Wanda. La sua ritrovata vita di famiglia si svolge attraverso diversi generi di sitcom, ripercorrendo l’evoluzione storica e commerciale della tv americana (dal Van Dyke Show a Vita da Strega, dalla Famiglia Keaton fino a Modern Family, con tanto di pubblicità d’epoca riviste in salsa Marvel Studios).
Pian piano però la realtà televisiva inizia a glitchare, gli attori involontari della serie s’inceppano, il colore soppianta il bianco e nero, e dal 4:3 si passa al 16:9.
La realtà fuori dalla tv – la realtà del Marvel Cinematic Universe, in cui viene “trasmessa” WandaVision – inizia a penetrare la visione, a deviare da quella che sembrava la trama principale, modificandola in corso d’opera per riportarla sul registro supereroistico, virando poi nell’horror e terminando nel dramma che apre alla prossime produzioni Marvel (attraverso le scene post credit in particolare, ormai un genere a parte).
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Settimana dopo settimana, episodio dopo episodio, WandaVision è diventata una delle serie più viste al mondo, oltre che l’inaspettato prodotto di punta della piattaforma Disney+ insieme a The Mandalorian.
C’è da chiedersi allora cosa guardiamo quando guardiamo una serie come questa: lo spin off di un universo cinematografico tratto da fumetti? Un esperimento di puro linguaggio televisivo, in cui ogni dettaglio – dal titolo della singola puntata agli opening credit sempre diversi fino agli spot – diventa elemento narrativo? La dimostrazione definitiva che il crossover – di storie, generi, linguaggi – è ormai a sua volta una forma cristallizzata, canonizzata tanto per autori quanto per il pubblico?
Come nel paradosso della Nave di Teseo, citato nello splendido confronto verbale tra i due Visione nell’ultimo episodio, ci chiediamo insomma se la vera WandaVision sia quella trasmessa dalla mente di Wanda o quella che accade fuori dall’anomalia di Westview.
Quanto al pubblico, le cose si complicano ulteriormente. Passando appunto da Disney+, Wandavision non ha incontrato una sola nicchia di audience specifica, cioè presumibilmente quella di appassionati del Marvel Cinematic Universe o di fumetti, ma una platea ben più ampia e eterogenea, a cui potevano sfuggire sia i riferimenti ai film Marvel dell’ultimo decennio quanto le fonti cartacee, ancora più variegate, cui WandaVision attinge, spesso tradendole (La Visione di Tom King, alcune storie regolari degli Avengers, l’epopea del Visione bianco, eccetera).
In WandaVision ogni cliffhanger (spesso finto), easter egg e MacGuffin produce racconto e assume rilevanza differente in base alla tipologia di spettatore che segue le vicende dell’anomalia, aprendo quindi a congetture e interpretazioni altrettanto difformi tra un episodio e l’altro.
Se il fan si chiede che ruolo ricopriranno nel corso della serie la strega Agatha Harkness o il redivivo Pietro, fratello di Wanda, e persino la fan theory diventa elemento del racconto, allo spettatore occasionale interesseranno altri fattori narrativi – banalmente, come finisce questa storia? Che fine hanno fatto i figli di Wanda e Visione? Ancora, una fetta di pubblico interessata a questioni più formali sarà certamente affascinata dalla struttura di WandaVision, dalle sue commistioni e dalla sua sperimentazione in ambito visivo.
La serie tv diventa dunque il laboratorio del Marvel Cineamatic Universe, il luogo ideale in cui testare altre forme, altri ritmi, altri linguaggi. A respirare sono anche gli attori, oltre che il racconto, con gli stessi Elizabeth Olsen (Wanda) e Paul Bettany (Visione) particolarmente abili nell’attraversare generi e registri diversi: commedia, slapstick, dramma, action, ritagliandosi quindi uno spazio che nei film del MCU è molto più ristretto e irreggimentato da esigenze di cast e quest principali.
Anzi, forse proprio negli scambi tra Wanda e Visione sta il cuore vero della serie, che sfugge così alla trappola del freddo gioco intellettuale: i dialoghi di Olsen e Bettany su amore, fiducia e perdita sono spesso toccanti in quel modo tragico e altisonante tipico della scrittura di Stan Lee (creatore di Wanda insieme a Jack Kirby). “Cos’è il dolore, se non amore che persevera?”, fa notare un umanissimo Visione a Wanda in un flashback, dopo la morte di Pietro.
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Più in generale rispetto al MCU, WandaVision rappresenta un ulteriore tassello di uno spazio narrativo che adesso si fa ancora più variegato e cangiante. Un universo sempre più asimmetrico, in cui il centro si sposta continuamente, anzi collassa come collassano forme, generi e registri, e lo spin off può diventare il cardine di nuove storyline principali. Senza mai, tuttavia, smettere di rappresentare l’idea, sempre ben strutturata in tal senso, di racconto popolare mitico, epico, in grado di parlare all’umanità contemporanea.
Tutti noi abbiamo sperimentato l’ossessione e il tormento di Wanda verso una persona amata e perduta prematuramente, così come il dover fare i conti con la pericolosità di perdersi in un mondo costruito dalla nostra mente; tutti noi sappiamo, e lo sappiamo ancora di più nel corso di una pandemia, quanto sia importante dare degna sepoltura ai propri cari. La stessa bolla di Westview racconta tanto le nostre nicchie social quanto la quarantena più o meno permanente che viviamo da febbraio 2020. Ma anche mettendo da parte i richiami all’attualità, WandaVision suona come una forte obiezione rispetto all’immagine di happy family veicolata dalle sitcom americane, all’ipocrisia di quello stile di vita.
Che diventa pure una critica alla colonizzazione del nostro immaginario da parte americana perpetrata dalle stesse Disney e Marvel. In fondo Wanda modella la sua vita a Westview sulla base degli show americani che ha assorbito da bambina nell’Europa dell’Est e in seguito da giovane ragazza emigrata negli USA, per poi scoprire da adulta che quella fantasia capitalistica non regge assolutamente a contatto con la realtà nuda e cruda.
Allo stesso modo, con la sua lunga lista di easter egg e finti colpi di scena che strizzano gli occhi ai fan, WandaVision è un antidoto anche a sé stessa, al suo essere inevitabilmente parte integrante di una potente macchina produttiva in cui è difficile districarsi tra marketing scaltrissimo e puro racconto. L’idea stessa del crossover, intesa stavolta come intreccio tra avventure di eroi appartenenti a differenti testate di uno stesso editore, nasce dal cross selling in ambito comics, strategia che serviva a incrementare la vendita di più albi ai lettori.
Insomma, se la nostra mitologia contemporanea è in mano a corporation che decidono cosa è canonico e cosa è apocrifo sulla base di piani di marketing e accordi economici e legali tra franchise, non fa certo nulla per nasconderlo, e anzi rende questo un elemento di parziale autocritica lanciato senza troppi fronzoli oltre la quarta parete.
È comunque evidente che la stratificazione di livelli di lettura di WandaVision, al di là della mera riuscita della serie, porta il racconto popolare su un livello più ambizioso, smentendo ancora una volta l’idea che ciò che è appunto popolare debba essere per forza di cose sciatto, incolto, rabberciato. Ed è giusto riconoscere a Disney e Marvel di nutrire, oltre che una certa sicurezza nei propri mezzi produttivi, profonda fiducia e dunque profondo rispetto dell’intelligenza e del gusto del proprio pubblico.
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Una scena post credit
Forse ha ragione Visione: non c’è alcuna necessità di seppellire un corpo, quando hai amato la pura essenza che ha abitato quel corpo. Il ricordo è già presenza, il dolore amore che persevera. Una voce amata è destinata a tornare sempre, in forme diverse, al nostro fianco. In fondo non viviamo e non moriamo: scorriamo assumendo ora una forma, ora un’altra.
Allora cos’è l’ossessione di Wanda? Perché la tentazione, di fronte alle spoglie inumane e mortali del cyborg, non più di seppellire ma di ridare vita a ciò che per definizione è inanimato? Forse non è più amore, ma desiderio di saggiare i confini di un potere immenso, ancora solo intuito.
D’altra parte tutti i villaggi felici si assomigliano tra loro, mentre ogni villaggio infelice è infelice a modo suo. Se dai un villaggio infelice a una strega, la strega farà ciò che sa fare: incantarlo. Nel bene e nel male. Lo perturberà nella felicità di plastica assorbita per interposta serie tv da bambina, per poi esserne espulsa forconi alla mano.
Ma Wanda non sa di essere una strega. Non conosce il caos che è condannata a generare, perciò persegue un ordine – affettivo, mentale – che la realtà non può sostenere. Di qui il dramma, la tragedia.
Come elemento estraneo al villaggio, Wanda lo perturba, facendone a sua volta una bolla di perturbazione della realtà nel mondo post-blip degli Avengers. Ma per riportare concordanza tra bolla e realtà occorre una seconda perturbazione, un terzo incomodo. La strega vera. Agatha è il destino di Wanda. Senza Agatha, Wanda non diventerebbe mai sé stessa nella rinuncia a Visione.
Agatha rincorre Wanda nei secoli. Il destino di Wanda, se non è quello di potente mutante per banali questioni di accordi tra franchise (i nostri bardi contemporanei), non è neppure quello di terrorista migrante messa in sicurezza da Tony Stark e compagni. Forse è davvero il caos, questo destino, ma non lo sapremo finché la storia non proseguirà altrove – sì, ma dove?
Lo schermo di una smart tv, di un cinema o di un telefono. Il 4:3 o il 16:9, la schermata intera che si prende tutto lo sguardo, tutta l’attenzione.
Il colore, il bianco e nero, il glitch acido e lisergico.
Il crossover da tre, quattro ore, lo spin off, la serie e la miniserie dedicata.
E ancora i fumetti, i giocattoli e i videgiochi densi di NPC così simili agli abitanti di Westview.
L’invasione, tutt’altro che segreta, di un immaginario bellissimo e colonizzatore.
Nuovi eroi per tempi nuovi: pure essenze immortali, destinate a scorrere nella visione digitale, nelle versioni informi e incoerenti del mito tramandato e tradito nei secoli. Come chi riceve queste storie, storie che non sono mai state eppure furono sempre.
(Minimaetmoralia.it, 25 marzo 2021)
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