In una scena a metà di Nomadland, Fern cammina di sera per le strade di una cittadina americana. Costeggia un cinema chiuso, guarda l’insegna: in programma c’è The Avengers di Joss Whedon.
La regista Chloé Zhao ha spiegato che questa citazione dal Marvel Cinematic Universe è lì per ricordarci che Nomadland è ambientato nel nostro mondo, nella nostra realtà. Più precisamente, il film si svolge a cavallo tra 2011 e 2012 (anno d’uscita del film sui Vendicatori), quando l’impatto della crisi finanziaria del 2008 era ancora forte sull’economia americana e globale.
La grande recessione è certamente tra le premesse della pellicola di Zhao, e in alcuni dialoghi del film, in particolare quelli tra Fern e sua sorella Doll, assume i contorni di un trauma irrisolto, di un peccato ancora da espiare per un’intera nazione.
A parte questo, Nomadland ha poco della denuncia o dello statement didascalico nei confronti delle turbolenze del capitalismo finanziario. Per quanto sia basato sul lavoro d’inchiesta della giornalista Jessica Bruder e utilizzi, soprattutto nella prima metà, molti stilemi del documentario d’osservazione, il film di Zhao è un racconto intimo, che fa di un certo contesto storico lo sfondo per un viaggio individuale, diviso in tre atti come qualsiasi storia di finzione tradizionale.
Anche Amazon, nel film, non è tanto l’Amazon della realtà giornalistica da cui apprendiamo le enormi contraddizioni e criticità della corporation di Jeff Bezos; è un elemento narrativo e in quanto tale rappresenta uno dei tanti lavori stagionali, certamente precari, squallidi e alienanti, cui una nomade può dedicarsi per fare un po’ di cassa e ripartire nei suoi giri.
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Da stanziale, ho conosciuto diverse persone che hanno fatto una scelta simile a quella dei nomadi del film ma giocando d’anticipo, in gioventù, prima ancora di essere divorati ed espulsi dal sistema. Qualche lavoretto stagionale in giro per il mondo, da Fuerteventura al Messico fino alla Patagonia e alla Florida (da clandestini, con o senza Trump al governo), e poi via a godersi la vita sempre un po’ più stanchi e incerti, ma decisamente vivi, tra un impiego e l’altro.
Questa vitalità, più che libertà, è molto relativa in Nomadland, i cui protagonisti sono tutti o quasi anziani. Gente rotta, prima di tutto nel corpo: usurati dal lavoro e dalla vita nomade, i compagni di strada di Fern hanno tutti un cancro, un fegato o un intestino andato. Queste fratture sembrano però ricamate preziosamente dall’interno come nella pratica giapponese del kintsugi, in cui i cocci di un vaso di ceramica vengono saldati insieme con polvere d’oro.
È per questo, credo, che nel film non ci sono conflitti né particolari attriti tra esseri umani. Dalle ferite dei personaggi di Nomadland – per lo più attori non professionisti che interpretano sé stessi – emana sempre qualcosa di bello e prezioso, di profondamente umano.
Linda, Swankie, Dave e gli altri sono sempre solidali, pronti alla condivisione e all’aiuto reciproco, anche fuori dalla comunità nomade. Il conflitto è tutto interiore, allora, ed è quello di Fern. Perché Fern, come forse molti tra noi occidentali, non accetta la ricomposizione della frattura nemmeno quando è impreziosita dall’esperienza: rivorrebbe il vaso ancora intero, come nei patti iniziali. Con l’oro dentro.
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Nel cerchio dell’anello d’oro che la tiene legata al defunto marito Bo, Fern trova il loop del lavoro stagionale inseguito da nomade, anno dopo anno, in nome della propria libertà. Una libertà condizionata, perché il legame con Bo sembra più una maledizione, della peggior specie poiché autoinflitta: imprigiona Fern anche nel movimento della vita nomade, ne fa una donna incapace non tanto di fermarsi, quanto di legarsi a qualcun altro, di uscire da sé stessa per connettersi davvero agli altri.
La vita vagabonda, insomma, è prima di tutto una questione personale, per Fern, anche se certamente si aggancia alle iniquità di un sistema che succhia la vita a uomini e donne per poi espellerli quando smettono di essere produttivi. Ma come racconta Doll, Fern è sempre stata in moto perpetuo, inquieta e un po’ weird sin da ragazzina, una sorta di pioniera: il suo furgone-guscio, non a caso, si chiama “Vanguard” – e d’altro canto la stessa Fern rivendica con fierezza di essere una “houseless”, più che una “homeless”.
Ma se i pionieri, pur macchiandosi del peccato della conquista e del controllo della natura, avevano il futuro davanti e anzi finirono col rappresentare quello dell’America intera, al contrario i nomadi moderni vivono in un eterno presente stagionale, dunque circolare, perché il futuro lo hanno ormai alle spalle, e non solo per questioni anagrafiche: è proprio il loro mondo a essere esaurito, come quello del brontosauro riprodotto a grandezza naturale in uno dei parchi per turisti visitati da Fern nel suo girovagare.
Alla fine, il massimo cui possono ambire i nomadi raccontati da Zhao è poter dire di aver vissuto una pretty good life ed essere ricordati, dopo la morte, dagli amici attorno al fuoco, come accade alla povera Swankie. È tanto, è poco?
Di sicuro, per Fern non è abbastanza, perché per lei il vaso era rotto già da prima della vita nomade, a partire da un vecchio compromesso con sé stessa: l’idea cioè di fermarsi a vivere per amore di Bo nel nulla di Gerlach-Empire, la minuscola cittadina artificiale poi cancellata dalla crisi dell’azienda per cui la coppia lavorava.
Fern accetterà le proprie fratture solo quando deciderà di tornare a Empire per affrontare i suoi fantasmi tra gli scheletri degli edifici della citta fossile – fossile come ciò che resta ancora oggi dei dinosauri (ancora loro) nel nulla dei deserti d’America.
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Seguendo l’evoluzione del conflitto interiore di Fern, Nomadland riesce a scongiurare il rischio di sciogliere nell’escapismo le contraddizioni di un mondo che sembra aver esaurito il suo ciclo. Il film di Zhao non è un manifesto né un inno alla vita randagia e libera nella natura incontaminata dei deserti americani: nel suo svolgersi non troviamo alcun lirismo consolatorio, nessuna possibilità di trascendenza.
Ogni sguardo sulla natura, per quanto accompagnato dalla straordinaria fotografia di J.J. Richards (e dalla colonna sonora invero un po’ zuccherosa di Ludovico Einaudi), è sempre antiretorico, spesso contrappuntato da un pianto in solitudine. Non è la contemplazione né l’immersione nel paesaggio a liberare Fern dai suoi fantasmi: neppure starsene a mollo nuda in un fiume di montagna la purifica, la libera del tutto, così come passeggiare in solitudine tra i cunicoli rocciosi di un canyon lunare non fa altro che portarle ulteriore smarrimento.
Allo stesso modo, nonostante tra i nomadi sopravvivano certe eco delle comunità hippie, in Nomadland non c’è alcuna connessione mistica con l’universo: le stelle e i pianeti lontani si osservano attraverso un umanissimo telescopio, coi piedi sempre ben piantati per terra; la polvere cosmica che ci cade addosso è la stessa che racconta ancora oggi l’estinzione di massa dei dinosauri (sempre loro), mentre le rocce eterne si sgretolano tra le mani di chi le raccoglie per farsi sabbia, polvere e poi niente.
Tra le stesse terre “conquistate” dai nomadi, in fondo, ci sono le Badlands e il Nebraska delle canzoni di Bruce Springsteen, lande di desolazione e alienazione in cui l’uomo non smette mai di essere predatore. Lo sottolineano i raccordi di montaggio che insistono su pezzi di carne animale: tanto le frattaglie date in pasto all’alligatore nel rettilario, che nell’inquadratura successiva diventano il burger cucinato nel fast food in cui lavora Fern, quanto i polli e i tacchini allevati in giardino dalla famiglia di Dave; questi ultimi in particolare trovano immediata corrispondenza nelle portate del pranzo del Ringraziamento, dunque nella potenziale stabilità che la famiglia potrebbe rappresentare per Fern e da cui Fern, ovviamente, non vedrà l’ora di fuggire.
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È probabile che per la parte “cosmica” del cinema di Chloé Zhao dovremo aspettare The Eternals, il film Marvel girato da questa regista cinese cresciuta tra Europa e USA e che a nemmeno quarant’anni ha già due Oscar, due Golden globe e un Leone d’Oro sulle spalle. Ecco spiegato, forse, il vero motivo di quell’easter egg di cui parlavo all’inizio: una sorta di autocitazione, di presagio benaugurante per qualcosa che doveva ancora avvenire nella carriera di Zhao.
Curioso, piuttosto, il fatto che proprio l’epilogo della saga degli Avengers abbia raccontato, con Infinity War nel 2018 e poi con Endgame nel 2019, la sparizione di una grossa fetta della popolazione mondiale; un po’ quello che accade con gli anziani improduttivi di Nomadland, se vogliamo, ma senza che sia necessario l’intervento di terroristi alieni.
Questo film di Zhao invece sta tutto per terra: ciò che di buono racconta è tale perché concreto, umano, terreno nella fragilità di cocci riparati con l’oro come nell’estrema frugalità di secchi di plastica per la defecazione all’aperto e sdraio aperte sul vuoto dei canyon del South Dakota.
Piccoli dettagli che sembrerebbero appartenere alla nostra realtà, quella fuori dal cinema accanto a cui passeggia Fern, e che invece assumono valore e ci toccano in profondità quando stanno dentro, sul grande schermo, nel buio di una sala chiusa.
(Minimaetmoralia.it, 10 maggio 2021)