Sembra ieri. All’inizio del 2009 mio padre mi regalò una piccola videocamera digitale. In tarda primavera, dato che mi annoiavo e non facevo che aspettare con impazienza la pubblicazione del mio primo libro di racconti, iniziai a usare questa videocamera per riprendere le processioni della Settimana Santa.
A maggio passai alle processioni mariane. Poi arrivarono i comizi.
Le elezioni del 2009 – europee, provinciali e amministrative – avevano una certa rilevanza a livello politico, con i primi tentativi di spostare al centro il Partito Democratico. Si diceva che se avesse funzionato a Brindisi, il laboratorio politico PD-UdC sarebbe stato subito riproposto a livello nazionale.
In passato avevo vissuto da vicino le batoste inferte al centrosinistra dal locale centrodestra – più berlusconiano di Berlusconi – e poi l’esaltazione per la vittoria di Vendola, a partire dalle primarie in cui il povero Boccia le aveva prese di santa ragione prima ancora di Fitto.
Questa volta era diverso: era la mia prima campagna elettorale da ex militante, e con la scusa di voler sperimentare con la mia videocamerina iniziai a seguire i comizi, i convegni e i meeting di tutte le forze politiche. Misi in piedi un piccolo blog, che chiamai La Passione, su cui caricavo i video dopo averli montati e rimontati fino a notte fonda.
A parte il montaggio, nei video non c’era niente che lasciasse trapelare il mio punto di vista (mi chiedo però se non esista punto di vista più esplicito di quello espresso dal montaggio di un testo o di un video). Mi interessava il lato teatrale di quei comizi, la potenza drammaturgica di alcuni interventi, gli archi narrativi che si creavano tra un comizio e l’altro nel corso della campagna.
Ogni tanto accostavo queste immagini a quelle delle processioni: era evidente che il comizio aveva un che di religioso, del tutto simile a una messa. All’epoca i partiti contavano ancora molto anche a livello locale, per cui c’era sempre una grande partecipazione di pubblico davanti al palchetto. Alcuni candidati assumevano toni e pose da predicatori, altri si dipingevano come veri e propri salvatori della patria o addirittura martiri, altri ancora erano semplici agnelli sacrificali mandati al macello da politici più avveduti.
Erano tutti o quasi degli ottimi interpreti: come attori navigati, quei candidati aderivano completamente al personaggio che mettevano in scena. Non c’era motivo di dubitare che credessero davvero a quello che dicevano sul palco, almeno per lo spazio di un comizio.
Ora che ci penso, il mio punto di vista emergeva un po’ dai brevi testi che accompagnavano i video. Erano testi ironici, di un’ironia da Anni Zero che oggi non farebbe sorridere nemmeno me. In fondo l’antipolitica era già nell’aria. Però mentre andavo avanti nelle riprese, sentivo che quell’esperienza mi stava cambiando nel profondo.
Che le elezioni fossero un momento di comunità e di socialità lo sapevo già dalle campagne elettorali che avevo seguito come militante. Ma stavolta non avevo ragioni di parte da promuovere o difendere (cosa che avevo fatto con l’intensità e spesso con la bruciante incoerenza della gioventù), e anzi provavo una strana attrazione verso ciò che era politicamente e antropologicamente più distante da me.
Era come se, tra processioni e comizi, la città si fosse finalmente aperta anche al mio sguardo e al mio corpo. Incontravo tante persone, candidati di ogni colore politico, anche quelli che non avevano mezza possibilità di “uscire” in consiglio comunale. Ascoltavo le loro storie, me ne appassionavo. A ventisette anni era la prima volta che vivevo e conoscevo appieno la città: avevo trovato la chiave giusta per raccontarla, la giusta distanza da cui osservarla – che poi era nel bel mezzo delle cose.
Non mi pesava tornare a casa alle due di notte e mettermi a montare i video perché fossero già online il mattino dopo. Non mi pesava ascoltare i lunghi monologhi allucinati delle persone che incontravo per strada, nei bar o ai comizi. Non mi pesava, durante lo scrutinio, girare di seggio in seggio solo per osservare e origliare le microstorie tipiche delle sezioni elettorali, scoprire gli odi e i rancori che diventavano improvvise e provvisorie alleanze, a volte perfino amicizie. Non mi pesava niente, perché sentivo che avevo scavato oltre gli strati di pietra e cemento che mi avevano tenuto lontano dal cuore della città.
Una delle microstorie più belle da un seggio: scrutinio in corso da diverse ore, litigio furibondo tra presidente di sezione e scrutatrice, tensione alle stelle e finanzieri pronti a intervenire. Sullo sfondo, un altro scrutatore sulla trentina se ne sta seduto tranquillo al posto suo, tra l’assorto e il distratto, poi riceve una telefonata, risponde, si alza in piedi e inizia a urlare: “È nato Pietro!” (Pietro, come il figlio di Nanni Moretti in Aprile). In men che non si dica spuntano, da non so dove, spumante e bicchieri di plastica, presidente e scrutatrice seppelliscono l’ascia di guerra per porgere i loro auguri al neopapà insieme al resto della ciurma, rappresentanti di lista e finanzieri inclusi – e brindai anch’io, da questa parte della transenna.
Quando finirono quelle elezioni mi sembrò di aver vissuto un’esperienza irripetibile. Di aver vissuto in un musical, in una lunghissima festa patronale o in un romanzo corale per oltre un mese. In effetti di lì a poco un’editrice molto sensibile come Anna Paladino mi chiese di trarre un libro da quei video: le avevo proposto una serie di racconti di fiction pura, lei invece si innamorò de La Passione, incuriosita da come avevo raccontato la campagna elettorale nella mia città. Però mi suggerì – e fece benissimo – di abbandonare il tono ironico dei testi del blog e di prendere sul serio quanto avevo raccontato, perché quella campagna, al di là dei toni da baracconata provinciale che pure non erano mancati, era “una cosa serissima”.
Il libro La Passione, che in parte consisteva delle trascrizioni dei comizi che avevo ripreso, fu pubblicato un anno e mezzo dopo da Untitl.ed Editore. Era un testo molto ambizioso, la sua gestione a livello linguistico e di incastri narrativi, forse, ancora fuori dalla mia portata. Però metteva per iscritto quello che avevo vissuto durante la campagna elettorale, e anche lo sguardo che adesso provavo ad avere verso la città. Da quei video era nato Petrolio, tra le altre cose (e i video di quel primo Petrolio erano girati con la stessa videocamerina che mi aveva regalato mio padre).
Oggi che per lavoro sono molto fuori o molto dentro alle campagne elettorali, oggi che candidate e candidati si raccontano da soli, in tempo reale, continuamente sui social, credo che una cosa come La Passione non avrebbe più senso. Per certi versi è meglio così: da quell’esperienza ho tratto tutto quello che potevo. Il mio sguardo non è più nuovo, a volte mi sento così appesantito e consumato dal mio rapporto con questa città che vorrei ci fosse una pensione di cittadinanza da richiedere con largo anticipo per il semplice fatto di aver vissuto tanto a lungo e con intensità sempre nello stesso posto – da pensionato, mi eviterei di rifare e soprattutto ripetere sempre le stesse cose, come un disco rotto, mentre la città evolve in modi per me non sempre comprensibili.
Soprattutto, oggi penso che le campagne elettorali siano paradossalmente il momento meno adatto per parlare di politica. Si è ridotto, e di molto, il numero di persone che arrivano preparate a una competizione elettorale. I social hanno fatto emergere il lato narcisistico di ciascuno di noi, e la tentazione di esibirsi in qualche numero di avanspettacolo diventa drammaticamente più forte nel corso di una campagna elettorale. In generale, c’è molta meno politica nelle nostre vite quotidiane, o meglio: è scomparsa, per motivi che vengono da lontanissimo e che non è il caso di discutere in questa sede, l’idea che la politica possa cambiare le cose se fatta insieme agli altri, ogni giorno, con delle regole condivise. Per quanto ci siano delle felici eccezioni (che come tali, però, vengono percepite dal corpo elettorale), i dati degli ultimi anni sull’astensionismo raccontano un processo di scollamento tra politica e cittadini che pare irreversibile (ma non può esserlo davvero).
Oggi vivo le elezioni come una sospensione della vita politica di una comunità, così come vivo le processioni come una sospensione della sua vita spirituale. Ed è strano, dato che non milito in nessun partito o movimento, né mi reputo credente – sono forse parte del problema?
Credo però che la dimensione sociale e comunitaria di una campagna elettorale esista ancora, anche se per un numero sempre più ristretto di persone. Un po’ invidio chi la vive, un po’ sento che non avrei le forze per viverla – e più in generale mi domando perché la stanchezza, quando arriva, si porta dietro un senso di morbosa immutabilità, come se non dovesse mai passare, mentre i momenti di forza e vitalità sembrano sempre così provvisori, una strana e fiacca eccezione.