Nostalgia e delirio su Monkey Island

La domanda “Com’è questo nuovo Monkey Island?” se ne porta dietro un’altra, quella vera: “È all’altezza dei primi due capitoli?”. È una domanda bastarda, perché inevitabile.

Temo che chi è passato da Monkey Island in giovanissima età, da bambino o preadolescente, ne abbia ricevuto un imprinting così forte in termini narrativi per cui risulta davvero complicato parlare di qualsiasi cosa venuta dopo. Monkey Island ha completamente formato il mio senso dell’umorismo, tanto per iniziare, ma mi ha pure insegnato come si imbastisce una storia e soprattutto come la si destruttura. Mi ha insegnato come funzionano i dialoghi, come si crea il senso d’avventura, come si rompe la quarta parete e si mescolano i layer fino a confondere consapevolmente i piani narrativi.

Non solo: dopo aver giocato Monkey Island ho cercato qualcosa delle avventure del temibile pirata Guybrush Threepwood in qualsiasi storia piratesca o di mare, da L’isola del tesoro fino a Moby Dick. Anzi, è molto probabile che se non avessi incontrato Guybrush, non mi sarei mai appassionato a quel genere di storie.

“Se facessi un nuovo punta & clicca” raccontava lo stesso sviluppatore Ron Gilbert nel 2013, “la gente direbbe che non è all’altezza di Monkey Island. Ma in realtà si lamenterebbe perché non sarebbe all’altezza della loro nostalgia di Monkey Island. Non posso competere con una cosa del genere, nessuno può”.

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SEGUONO SPOILER.
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Il problema della memoria è la nostalgia. O forse è il contrario, forse la memoria è difettosa (funziona come il cinema e come i sogni) e allora la nostalgia le va in soccorso, ma finisce col fare ancora più casino. Ad ogni modo, se un’opera ti si imprime negli occhi e nel cuore quando sei molto giovane, prima o dopo ti troverai a inseguirla. Poi a rimpiangerla. Ma non la acciufferai mai nella sua interezza, nella sua integrità formale e sostanziale di opera fatta e compiuta da esseri umani come te.

Un po’ come per Guybrush alle prese con l’ossessione per il Segreto di Monkey Island, succede che ci fissiamo sull’oggetto della nostra nostalgia pensando che è nostro e lo sarà per sempre, mentre è nostro davvero solo per il tempo in cui ne abbiamo fruito. Nel frattempo però lo abbiamo deformato, amplificandone alcuni aspetti e la portata fino a stravolgerlo.

Prendiamo il tema musicale di Monkey Island. Nella mia mente è sempre stato suonato da un’orchestra di fiati e percussioni caraibiche, con suoni limpidi e puliti. Ma questo è un ricordo artificiale, frutto di innesti successivi, nato insomma dalle riedizioni del tema trovate su Youtube in tempi più recenti: quando ho giocato per la prima volta Monkey Island, nel 1990 o nel 1991 (anche l’anno è incerto), il mio computer non aveva una scheda audio in grado replicare il suono di strumenti veri. È molto probabile che quel tema lo abbia ascoltato per diverso tempo come una serie di bip-bip-bop-bop gracchiati via dall’altoparlante interno del computer.

I primi due capitoli di Monkey Island che ricordo con tanta intensità, insomma, esistono per la maggior parte, e con quell’intensità, soprattutto nella mia mente. Prima di approcciare Return to Monkey Island avrei potuto rigiocarli con lo spirito critico e la consapevolezza del me di oggi, con trent’anni in più di fruizione di storie sul groppone, eppure non l’ho fatto. Perché sapevo che non poteva essere quello lo spirito con cui avrei giocato Return.

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Vista anche quella dichiarazione del 2013, è evidente che Gilbert abbia scritto il nuovo Monkey Island conscio di cimentarsi con un’operazione decisamente complessa. Return to Monkey Island è un gioco molto divertente come i suoi predecessori, ovviamente, ma è anche molto malinconico. Già prima del finale, ci sono almeno due momenti in cui è chiaro dove Gilbert (con Dave Grossman) intende andare a parare.

Quando Guybrush incontra la Voodoo Lady, le chiede finalmente come si chiama: in tanti anni e tante avventure, non ha mai conosciuto il suo vero nome. Dopo qualche ritrosia, la donna cede e dice di chiamarsi Corina, per poi accorgersi che Guybrush è deluso da quel nome così comune. Allora gli fa notare che a volte è inutile voler sapere tutto, perché il rischio di svelare il mistero è scoprire che dietro quel mistero non c’era poi chissà cosa.

Poi c’è l’incontro con Conrad, il fanboy con una finta gamba di legno che ha messo insieme il Museo della Tradizione Piratesca su Mêlée Island. Il museo è pieno di oggetti e “reliquie” dalle storie dei vecchi Monkey Island. Quando Guybrush si presenta come il protagonista di quelle avventure, il giovane Conrad non capisce: non è che non crede alle parole di Guybrush, semplicemente non lo ascolta, non lo vede, è incapace di riconoscere il mito persino nel momento in cui se lo trova davanti; il piacere di essere il custode, il gatekeeper di quegli oggetti, supera di gran lunga l’idea che quegli oggetti possano rimandare a un personaggio in carne e ossa, qualcuno che sia il vero “possessore” di quelle storie e in quanto tale possa anche… deludere le aspettative.

Questo confronto continuo tra passato e presente è portato avanti anche attraverso la cornice del racconto, quella in cui Guybrush racconta le sue storie a suo figlio. Qui, benché i piani e i livelli di lettura si complichino ulteriormente, è ancora più chiaro che tutto Return to Monkey Island si gioca sul come raccontiamo le storie e le cambiamo col tempo, e sul fatto che possano anche deludere chi ne fruisce.

“Sei proprio scarso con i finali!” dice Boybrush a Guybrush quando anche quest’avventura volge al termine. Ma lo stesso bambino, giocando con l’amico (il fratello?) Chuckie, in precedenza aveva completamente sconvolto il finale del secondo capitolo di Monkey Island. E quella versione sconvolta, fuori dal “canone” secondo Guybrush, è invece la stessa che abbiamo giocato anche noi trent’anni fa, e che in un modo o nell’altro torna a essere vera e canonica nel finale di Return. Un bel casino, insomma.

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In fondo cos’è Monkey Island, ridotto all’osso? C’è un pirata che vuole vivere delle gloriose avventure di mare, e noi con lui. Punto. In questo senso, è palese che il Segreto di Monkey Island che ossessiona tanto noi giocatori che lo stesso Guybrush è sempre stato un macguffin, una scusa come un’altra per continuare a raccontare queste sgangherate avventure piratesche in forma videoludica.

E cos’è un videogioco, alla fine? Un luna park messo in piedi per noi dai suoi sviluppatori. In genere, la bravura degli sviluppatori sta proprio nel farci dimenticare che si tratta di un parco giochi in cui tutto, per quanto scriptato e dunque tutt’altro che “libero” e “aperto” (o proprio per questo), è messo lì per prendere vita apposta per noi. Da questo punto di vista, Monkey Island – ispirato a sua volta dal parco a tema di Pirati dei Caraibi di Disneyland – ha sempre giocato a carte scoperte. Certo che è un parco giochi e certo che è tutto finto, costruito apposta per voi!

In Return scopriamo che c’è la possibilità che tutto il baraccone sia stato assemblato insieme da sviluppatori e personaggi: è lo stesso Guybrush che nel finale, col nostro aiuto, deve spegnere le luci del parco e staccare la corrente per fermare i binari su cui si muovono gli altri personaggi improvvisamente ridotti a pupazzi e sagome di cartone, mentre su una targa leggiamo: “Luogo storico: Il Segreto Originale, un parco avventure a tema piratesco fondato nel 1989 da R. Gilbert”. Forse questa è l’ultima zampata di Gilbert, un modo per dire: il Segreto è questo, perché il gioco è mio. O forse no.

Mentre chiudo quest’articolo, su Twitter lo sviluppatore scontroso lascia intuire che questa non sarà l’ultima storia di Monkey Island. In un’intervista dei giorni scorsi si è lanciato in un’affermazione ancora più radicale, per cui a quanto pare in futuro ci saranno nuove storie di Monkey Island scritte da altre persone. La parte di me che vive con Conrad nel Museo della Tradizione Piratesca – quella che non doveva parlare di Monkey Island e invece l’ha fatto, la stessa che forse non voleva neppure giocare Return to Monkey Island e l’ha fatto – ecco, quella parte di me vorrebbe semplicemente dire “Basta, Ron, va bene così, davvero”. Allora mi chiedo: ci siamo mai stancati di portare in scena le opere di Shakespeare? Avremmo mai chiesto a Omero o chi per lui di smettere di raccontare le sue storie, avremmo fatto a meno di appropriarcene e di cambiarle come più ci aggradava nel corso dei secoli? È possibile avere nostalgia del futuro?

(Minimaetmoralia.it, 25 settembre 2022)

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