Per Marshall McLuhan la pubblicità rappresentava la maggiore forma d’arte del XX secolo, tanto nelle sue espressioni televisive che nei billboard sparsi per le highway e i sobborghi delle città americane. In un’intervista alla RAI del 1972, l’intellettuale canadese sottolineò a più riprese quanto James Joyce ci avesse visto giusto, nel fare di Leopold Bloom – un professionista della pubblicità – l’Ulisse moderno.
Quella di McLuhan non era una provocazione. Nel corso del ‘900 abbiamo visto diversi grandi artisti prestati al mondo dell’advertising e grandi pubblicitari esprimere il loro potenziale creativo direttamente nel perimetro di campagne, spot, jingle e manifesti, raccontando o addirittura guidando cambiamenti culturali e suscitando in noi emozioni che andavano oltre la necessità di piazzarci una lavastoviglie in casa o venderci un orologio di lusso trasformato in oggetto di moda e consumo popolare.
Alcuni di questi professionisti, come nel caso del celebre Bill Bernbach, conservarono un atteggiamento sempre critico e dialettico nei confronti dei colleghi e del settore, senza mai smettere di porsi domande su quanto la capacità di persuadere i consumatori dovesse comunque rispettare la loro intelligenza, il loro gusto, la loro sensibilità.
Avanti veloce: col digitale, il panorama dell’advertising è completamente mutato, permeando ogni aspetto delle nostre vite online. L’integrazione tra siti, social, newsletter e altri strumenti digitali permette di misurare al millimetro l’efficacia della pubblicità influenzandone il contenuto creativo; big data, algoritmi e intelligenza artificiale sono in grado di predire in modo pervasivo la reazione dei potenziali consumatori rispetto alla presentazione di un prodotto. Intere campagne, così come progetti editoriali e persino opere d’arte, vengono quindi progettate in base alla potenziale reazione degli utenti online, e spesso appiattite sui (presunti) gusti di nicchie e segmenti di pubblico.
Ma già nell’epoca d’oro dei Mad Men come Bill Bernbach c’era un importante dibattito sul rapporto tra, semplificando, la parte più creativa dell’advertising e quella più scientifica, legata al marketing e quindi basata su indagini di mercato, interviste, focus group, sondaggi, potenziali ritorni sull’investimento. Se vogliamo, fu proprio nella seconda metà del secolo scorso che si intensificò l’attenzione per il marketing altamente misurabile, predicibile e performante per come lo conosciamo oggi.
Negli anni ’60, un gigante come Rosser Reeves “prometteva ai clienti scientificità, misurabilità, parlava per tabelle, ricerche, percentuali”, come ricorda Giuseppe Mazza nell’introduzione al suo Bernbach pubblicitario umanista (Franco Angeli, 2014). Per Reeves le capacità espressive di art director e copy erano una perdita di tempo, oltre che di denaro per i clienti delle agenzie pubblicitarie.
Dall’altra parte della barricata, proprio Bill Bernbach si dimise dalla Grey Advertising con queste parole:
“In pubblicità ci sono un sacco di bravissimi tecnici. E purtroppo hanno vita facile. Conoscono tutte le regole. Ti dicono che un annuncio pubblicitario sarà più letto se mostra delle persone. Ti dicono quanto dovrebbe essere lunga o corta una frase. Ti dicono che il testo deve essere spezzettato per una lettura più scorrevole. Ti propongono una certezza dopo l’altra. Sono scienziati della pubblicità. Ma c’è un problema: la pubblicità è fondamentalmente un modo per convincere e convincere non è una scienza. È un’arte. Il pericolo è che la capacità tecnica venga scambiata per abilità creativa. Proviamo a percorrere nuovi sentieri. Proviamo al mondo che il buon gusto, l’arte, la bella scrittura possono dar vita a un buon modo di vendere.”
In questa sorta di preistoria del marketing digitale lavorò anche un personaggio di finzione come Donald Draper, protagonista della serie Mad Men di Matthew Weiner. Su Draper si è detto e scritto tantissimo: meno approfondito è il rapporto che ha avuto col suo lavoro di copy e art director, dunque col dibattito tra creatività e oggettività nell’advertising dell’epoca.
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Ispirato a diverse figure storiche della pubblicità americana (Draper Daniels, Albert Lasker, Emerson Foote e George Lois tra gli altri), Donald Draper è, a tutti gli effetti, un artista. Non tanto per gli eccessi nascosti dietro una facciata ultraborghese – Don è alcolista, ipocrita, sessuomane e sessista, cinico e traditore seriale, ma sempre perfettamente imbrillantinato, profumato e vestito di tutto punto – quanto per la capacità di trasformare in opera ogni esperienza. Benché quest’opera sia sempre irreggimentata all’interno dei limiti e delle regole di una campagna o di uno spot, il processo creativo di Don è lo stesso di qualsiasi artista: si fonda cioè sull’abilità di trasfigurare e sintetizzare l’esperienza personale e collettiva in uno slogan o una piccola storia.
Anzi, proprio come un artista, Draper è pressoché certo, anche solo su un piano puramente inconscio, che qualsiasi cosa gli accada, sarà proprio questo talento nel trasfigurare le sue avventure in arte a salvarlo – specie quando queste avventure coincidono con i grandi cambiamenti sociali in atto nell’America a cavallo tra gli anni ’60 e ’70.
Una sorta di ottimismo tragico che affiora già nella prima puntata della serie, quando Don è alle prese con la nuova campagna per Lucky Strike. In America sta cambiando la percezione del tabagismo, in procinto di passare definitivamente da simbolo della mascolinità e dell’american way of life a grande questione sanitaria di fronte alle evidenze dei danni del fumo sulla salute. L’industria del tabacco cerca quindi di correre ai ripari, provando a comunicare in maniera diversa.
In crisi rispetto alle richieste del cliente, Don passa per bevute e avventure extraconiugali con Midge (una pittrice beat, non a caso) prima di arrivare alla conclusione che soddisferà i vertici di Lucky Strike: se non si può più parlare di quanto sia fico fumare sigarette, non potranno farlo neppure i competitor; tanto vale cambiare campo di gioco. E allora ecco, semplicemente: “Lucky Strike: it’s toasted”. Non c’è altro, a parte il riferimento al processo di realizzazione del prodotto.
Già in questa prima puntata Don esibisce una certa insofferenza rispetto al reparto marketing della Sterling & Cooper, la sua agenzia. Lo vediamo infatti cestinare subito le ricerche di mercato a base di studi freudiani (una sorta di neuromarketing ante litteram) presentate da una ricercatrice austriaca. Il fatto è che Don sa leggere il suo tempo: da fumatore, sa che i fumatori sono consapevoli – e lo saranno in misura sempre maggiore – dei danni provocati dal fumo, ma continueranno comunque a fumare, al più cambiando prodotto; proprio come gli ha fatto intuire il cameriere “intervistato” – però sul campo – in un bar a inizio puntata.
Fin dall’inizio di Mad Men, insomma, Don Draper rifiuta la riduzione del suo lavoro a mera rielaborazione di input statistici per lasciarsi andare completamente al suo intuito, con tutto quello che ne consegue: irascibilità, incostanza, rifugio nell’alcol e nel sesso pur di lasciar fluire liberamente il processo creativo. Ogni volta che Don va in crisi nel corso della serie siamo portati a credere che la sua parabola discendente sia destinata a non aver mai fine. Ma non è così: il finale aperto di Mad Men dimostra che il personaggio di Don, per quanto tragico, è destinato ad andare avanti, a ogni costo, proprio in virtù dell’approccio artistico alla vita e alla professione.
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Dopo l’ennesima crisi matrimoniale, in difficoltà pure rispetto alle dinamiche della gigantesca agenzia McCann-Erickson cui è approdato dopo il fallimento della Sterling & Cooper, Don molla tutto nel bel mezzo di un briefing per Coca Cola. Si mette quindi in viaggio per l’America in cerca di sé stesso, per scoprire però presto che si tratta di un viaggio a vuoto, che non porterà a nulla: senza la sua professione, senza la sua arte, Don non esiste. Almeno finché non resta “prigioniero” del ritiro spirituale cui è arrivato seguendo l’amica Stephanie. Qui, dopo essersi adattato e in un certo senso mimetizzato coll’ambiente circostante (come in fondo ha sempre fatto nel corso della sua vita), Don ha l’intuizione per il nuovo spot Coca Cola nel corso di una seduta di meditazione.
Il finale di Mad Men è un’epifania che agisce su due livelli: uno, primario, per Draper che riceve l’insight dopo essersi immerso nei cambiamenti sociali dell’epoca; il secondo per noi che guardiamo: non solo, in questo caso, perché lo spot Coca Cola mostrato in chiusura di puntata e di serie – il popolarissimo Hilltop del 1971 – è reale e ci riporta da questa parte dello schermo (“It’s the real thing”, canta il coro multietnico nel ritornello), quanto perché siamo portati a immaginare che Don verrà fuori anche da questa crisi per rientrare nel mondo della pubblicità da creativo di successo, acclamato da critica e pubblico. Un vero e proprio artista che può permettersi di fare a meno di ricerche e studi, ancora una volta, guidato da intuito ed esperienza nella creazione di uno spot destinato a diventare immortale.
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Nonostante il successo, come dicevo il personaggio di Don Draper resta tragico: quello ohm finale non è un “sì” a una vita nuova, liberata dai propri demoni o da quelli della società dei consumi di cui lo stesso Don sembra una delle tante vittime più che un eroe o, al peggio, un carnefice. Al contrario: per quanto sopravvissuto all’ennesima crisi, l’epifania del ritiro spirituale serve a Don per tornare da vincitore in quella luccicante società delle merci e della pubblicità in cui si è sempre mosso sotto copertura, come un infiltrato. In fondo quella di “Don Draper” è un’identità rubata, quasi un nome d’arte, l’avatar con cui il patetico Dick Whitman si è fatto strada a Manhattan lasciandosi alle spalle un’infanzia di miseria quasi dickensiana nell’America rurale: un’apparenza in un mondo di apparenze, a sua volta un prodotto della società dei consumi.
Il fatto è che l’uomo draperiano non è un eroe classico, tantomeno morale. Per Draper esiste il rispetto più che l’amore, e di fedeltà e compassione sono degni, a giorni alterni, solo coloro che di volta in volta tornano utili per l’affermazione personale o per la difesa del proprio spazio di rielaborazione e libertà creativa; come per ogni artista, per Draper non esistono bene e male, né l’obiettivo può essere quello di lasciare il mondo migliore di come lo si è trovato.
La questione è piuttosto sperimentare il mondo, attraversarlo e avventurarsi in esso, continuamente, saggiandone i limiti e succhiandone ora senso, ora appropriandosi della sua pura estetica – come nel caso del ritiro spirituale e della rivoluzione hippie – in virtù dell’esaltazione del proprio percorso individuale, per poi restituire quell’esperienza sotto forma di opera, al servizio del brand di turno. E così via, all’infinito.
Eppure proprio la difesa di quello spazio di libertà creativa, che porta al rifiuto per ogni compromesso coi reparti marketing e con l’organizzazione interna del colosso McCann-Erickson, fa di Don Draper un personaggio ricco di sfumature (e ovviamente di fascino). La sua fragilità, come la sua irriducibilità, è sincera, il suo spirito critico sempre vivo – per quanto non lo porti mai a mettere in discussione il mondo scintillante e ipocrita che a lungo ha sgomitato per conquistare. Quella di Don Draper è sì una storia di riscatto di classe – e su questo piano si gioca il conflitto con la facoltosa Betty, prima Mrs Draper della serie – ma si ferma un attimo prima di diventare una storia di emancipazione, dunque anche solo lontanamente politica.
Quella di Don è una piccola Odissea borghese: un’avventura, non un racconto edificante. Per questo anche la battaglia contro la presunta oggettività del marketing resta una questione personale, quasi intima, certamente mai teorizzata né condivisa con amici e colleghi come fu invece nel caso di Bill Bernbach e altri pubblicitari “umanisti”.
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Se dunque quella di Don Draper è una battaglia vinta sul piano della riuscita artistica e letteraria del personaggio, è decisamente persa su quello umano e professionale; anche perché, come abbiamo visto, da questa parte dello schermo il mondo dell’advertising è andato poi in tutt’altra direzione, accelerato e dominato dalla tecnologia digitale, dalla misurabilità, dal sogno del marketing one to one ormai quasi del tutto realizzato attraverso l’automazione e la profilazione dei consumatori. Un sogno che può sembrare un incubo, alle cui regole deve comunque sottostare ogni sussulto creativo – in questo caso sì, portando la questione ad assumere delle forti implicazioni politiche.
Chissà cosa penserebbe oggi Don Draper del capitalismo di piattaforma e di sorveglianza, delle forme della vita pubblica e della democrazia rimodellate, come il nostro cervello, dalla stessa tecnologia e dallo stesso linguaggio del marketing digitale e quindi della pubblicità. Forse, alla luce di quello che la comunicazione pubblicitaria è diventata in seguito, persino l’irriducibile e immorale uomo draperiano (forse proprio perché irriducibile e immorale) ci ricorda quanto di umano sarebbe opportuno conservare nell’odierna società digitale, in cui le macchine producono e valutano per noi contenuti pubblicitari destinati, fondamentalmente, ad un pubblico di altre macchine.
(Minimaetmoralia.it, 16 luglio 2021)