Due articoli su The Last of Us. Scritti prima dell’arrivo della pandemia di SARS-CoV-2 (e prima, ovviamente, dell’uscita di Part II), sono usciti a febbraio 2020 su Minima&Moralia e N3rdore.it. Le foto sono state scattate su una Playstation 4 slim, nella versione remastered di TLOU.
Il cervo di The Last of Us
La sequenza iniziale di The Last of Us è un racconto a sé, concluso e perfetto. Più che fare da tutorial per i comandi di gioco, serve a tirarci dentro la storia di Joel: alla fine dell’introduzione lo vediamo stringere tra le braccia il corpo senza vita della figlia Sarah. Le ha sparato un militare, su ordine di un superiore, sospettando fosse infetta. Abbiamo appena assistito alla morte del nostro avatar. Quell’avatar era una ragazzina.
Scorrono i titoli di testa, le voci di radio e tv raccontano l’evoluzione della pandemia di Cordyceps che tra il 2013 e il 2033 stermina circa il 60% della popolazione mondiale. L’apocalisse zombie di TLOU non si deve a un virus sfuggito al controllo umano o a chissà quale invenzione aliena o soprannaturale. La causa della fine della contemporaneità – più che della fine del mondo – è un fungo particolarmente aggressivo che riduce gli esseri umani in mostruose abiezioni prive di senno. Benché, come ha suggerito la sequenza iniziale, nel corso del nostro cammino avremo da temere più dagli umani ancora sani che dagli infetti, in TLOU l’antagonista è la natura che fa il suo corso, riprendendosi il suo spazio.
Spazio, inteso come ambiente, che è il fondamento del gioco. TLOU è un continuo dialogo con l’ambiente circostante: le città abbandonate e riconquistate dalla vegetazione selvaggia come gli interni, dettagliatissimi, in cui fioriscono le bellissime esplosioni fungine. Non è insolito, di tanto in tanto, fermarsi qualche minuto per contemplare lo strabiliante orrore dell’abbandono o scattare una fotografia.
“Esplora un bellissimo mondo decimato da una pandemia” c’è scritto sulla scatola di TLOU. Il che ci ricorda che la condizione primaria dei videogiocatori, soprattutto in un gioco che presuppone appunto un minimo di esplorazione, è sempre quella del turista. In TLOU alcuni uomini – i cacciatori – chiamano proprio “turisti” i disperati che si azzardano a intrufolarsi nelle zone di quarantena delle città americane.
Come in molti videogiochi popolari – in sei anni, il titolo di Naughty Dog ha venduto oltre venti milioni di copie – in TLOU c’è anche da correre, nascondersi, uccidere. Ma lo scontro col nemico non è mai piacevole. È inevitabile, se vuoi sopravvivere – ma non è così in ogni videogioco? È il tocco di realismo amaro e minimalista che permea tutta l’opera, allora, a fare la differenza (insieme alla colonna sonora scheletrica di Gustavo Santaolalla).
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Nel mondo della contemporaneità esaurita le risorse sono scarse. Una vecchia musicassetta country trovata per caso in una delle poche automobili ancora funzionanti è il massimo dello svago che puoi concederti. Cibo, medicine e munizioni sono merce molto rara. Ogni pallottola andata a vuoto rende al nemico un vantaggio che può rivelarsi fatale. Se il nemico è un infetto, hai quasi l’impressione di averlo liberato, una volta ucciso, una volta messe finalmente a tacere le sue urla, i lamenti. C’è ancora qualcosa di umano in loro?, si chiede il piccolo Sam a metà del gioco.
Se il nemico è un uomo ancora in salute, le cose vanno anche peggio. Gli uomini sono astuti e affamati, sanno come darti la caccia, ci mettono poco a esibire il disumano nell’umano, obbligandoti a fare lo stesso. Se anche riesci a sopravvivere, non c’è mai euforia dopo la fine di uno scontro. Al massimo ti senti sollevato – ma sempre sfinito, sfibrato, perché sai che il pericolo tornerà a breve.
Ogni passo costa fatica, in TLOU. Più che dai momenti-jumpscare, neppure tanti, l’orrore è caratterizzato da una tensione continua, è un’atmosfera che ti tiene sempre vigile, sul confine con la disperazione. TLOU mette in scena il ritorno a uno stato di natura, in cui cacciatori e prede si scambiano continuamente i ruoli.
Su questo sfondo si evolve il rapporto tra Joel e la piccola Ellie. Il loro viaggio a piedi per l’America devastata dalla pandemia ricorda quello di padre e figlio in La strada. Per quanto tra Joel e Ellie non ci sia alcun legame di sangue, come nel romanzo di Cormac McCarthy la chiave del rapporto tra generazioni è la trasmissione del fuoco, la speranza che il nuovo non solo nasca, ma germogli in qualcosa di migliore rispetto al passato.
All’inizio Joel e Ellie procedono per inerzia, come tutti gli umani, per mero spirito di sopravvivenza. Se lo ripetono spesso: andiamo avanti, vediamo cosa succede. Prima o poi la fortuna finirà, forse no. Endure & survive. Pian piano i due si avvicinano, imparano a conoscersi, a fidarsi l’uno dell’altra, e il rapporto fatto anche di normalità – Ellie che impara a fischiare, Joel che le regala i fumetti trovati in giro per le abitazioni abbandonate – diventa il nostro rifugio, come giocatori, dall’orrore circostante.
In questo senso il finale di TLOU è ambiguo, perché rende ambiguo, di colpo, anche il rapporto tra Joel e Ellie. Ellie è immune al fungo: è da lei che i paramilitari delle Luci (Firefly in originale) sperano di ricavare un vaccino per il Cordyceps, anche se questo comporta un’operazione al cervello che potrebbe uccidere la ragazzina. Non sappiamo se Ellie sia pronta a sacrificarsi: scopriamo le modalità dell’operazione mentre lei è priva di sensi, dopo un incidente. Non lo sapremo neppure alla fine. Scopriremo però che Joel è disposto a mentirle pur di portarla via dalle Luci, pur di salvarla dall’operazione.
No, racconta Joel a Ellie nel finale, non sei l’unica, ce ne sono altri come te. Le Luci ci hanno provato, ma niente, non c’è alcun vaccino. È quindi Joel a impedire a Ellie, al nuovo, di rappresentare un futuro migliore per l’umanità. Una menzogna che potrebbe sembrare un semplice cliffhanger per la seconda parte del gioco in uscita nel 2020 (come si evolverà il rapporto tra Joel e Ellie, dopo la bugia?), ma che in ogni caso ci spiazza: Joel mente per una causa che sentiamo giusta ma che la ragione ci suggerisce infinitamente meno importante rispetto a quella più generale che riguarda il destino dell’umanità. Così Joel scioglie un dubbio morale al posto nostro, e impone la sua scelta anche all’inconsapevole Ellie.
Mentendo, Joel ci delude: pensavamo si fosse riscattato dal cinismo con cui si era presentato all’inizio dell’avventura, e che il suo legame con Ellie non solo fosse saldo, ma sano. Dopo aver abbandonato ogni proposito di mollarla al fratello Tommy, ci auguravamo che Joel, il personaggio che abbiamo interpretato per gran parte del gioco, potesse essere sincero con Ellie.
Impersonare Ellie mentre ascoltiamo quella menzogna non fa che aumentare la delusione. Nei suoi panni, abbiamo iniziato a sentirla come un personaggio dotato di una sua soggettività, che meriterebbe di poter scegliere in totale autonomia se sottoporsi o meno all’operazione. Senza dimenticare che come giocatori ci sentiamo traditi da quella che è una bugia detta da un adulto, il peggior tipo di bugia – poco importa se a fin di bene – che possa capitare di ascoltare: lo scopriamo da bambini ed è una cosa che continuiamo a sapere anche da adulti.
Un adulto che nel caso di Joel agisce da padre nonostante non sia neppure nostro padre. Ma già da un po’ Joel aveva iniziato a comportarsi in modo strano: lo avevamo sentito confidarci che saremmo piaciute a sua figlia, che probabilmente saremmo andate molto d’accordo con lei… Già prima della bugia che chiude il gioco, siamo sfiorati dall’idea che quello di Joel sia l’egoismo di un padre che sembra aver risolto solo in apparenza il suo lutto, e che ha finito col sostituire la figlia Sarah con Ellie. Come l’orologio che porta al polso – regalo di Sarah per il suo compleanno nel 2013 – il tempo di Joel sembra fermo a vent’anni prima, a quel dolore.
Quando Ellie gli chiede nuovamente di giurare di aver detto la verità sul vaccino, la menzogna raddoppia. Quel “Lo giuro” finale fa tornare Joel ad essere un uomo definitivamente ambiguo e sconfitto ai nostri occhi. Come all’inizio del gioco.
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Se torniamo indietro ai primi minuti di TLOU, notiamo che le figure di Ellie e Sarah coincidono almeno in un punto, per quanto simbolico. Nei panni di Sarah ci svegliamo in piena notte per andare a cercare Joel in giro per casa. Arrivati nella sua stanza troviamo la tv accesa, il letto sfatto. Dalla tv arrivano le notizie dei disordini causati dai primi infetti in città. Un’esplosione in lontananza ci porta a guardare fuori dalla finestra. Prima di correre a piano terra abbiamo il tempo di dare un’ultima occhiata: sul letto di Joel c’è un quadro, e nel quadro un cervo immobile sullo sfondo di un paesaggio innevato.
Quell’immagine osservata attraverso gli occhi di Sarah sembra un presagio di quanto accadrà in seguito a Ellie, nel capitolo invernale di TLOU. L’ombra che si allunga nella poca luce della stanza è quella di Sarah, ma potrebbe anche essere quella di Ellie, in effetti.
Il cervo assume diversi significati in tantissime culture. Sacrificio, innocenza, punto di contatto tra mondo dei vivi e mondo dei morti, rinascita, resurrezione (per i cristiani può rappresentare Cristo, ad esempio). Più tardi troveremo delle teste di cervo impagliate nelle casa abbandonata in cui Ellie si è nascosta dopo aver scoperto che Joel intendeva abbandonarla. Poi, in inverno, ci troveremo con la sola Ellie nella stessa scena vista nel quadro.
Joel è fuori gioco per una ferita terribile, così per la prima volta impersoniamo la ragazzina, armata di arco e frecce. Siamo in cerca di cibo nel gelo di un bosco innevato. Ci imbattiamo in un cervo. Scocchiamo la prima freccia, e se siamo abbastanza fortunati riusciamo a ferirlo e a vederlo fuggire. Seguiamo le tracce di sangue nella neve, lanciamo una seconda freccia quando l’animale è di nuovo fermo a fiutare l’aria. Anche questa freccia va a segno, forse no, in ogni caso continuiamo a seguire la preda. Così un’altra volta, finché il cervo non s’infila in un villaggio apparentemente abbandonato. Qui incontreremo David e un altro membro del suo gruppo di sopravvissuti.
Dopo aver abbattuto il cervo, David si mostra gentile e degno, almeno in apparenza, della fiducia di Ellie. A trarre in inganno anche il giocatore è il pericolo esterno che obbliga a fare squadra con David – gli infetti che si apprestano ad assaltare il villaggio – e il fatto stesso di impersonare una ragazzina pronta a fidarsi, a mettere in dubbio le ragioni della propria sopravvivenza se questa è a scapito di quella altrui. In fondo, spiega David, siamo tutti in lotta per proteggere i nostri cari. Sa bene che Ellie è disposta a tutto in cambio degli antibiotici che potrebbero salvare la vita a Joel.
David è un cannibale e uno stupratore. Alla fine di questo capitolo tenterà di violentare la stessa Ellie dopo averle a lungo dato la caccia. Il capitolo invernale è decisamente quello più brutale e violento dell’intero TLOU. Una terrificante novella sull’orrore che abita l’animo umano: si è aperta col candore della visione di un paesaggio innevato per concludersi con una ragazzina fuori controllo che si accanisce con un coltello da macellaio sul volto del suo predatore. Se già uccidere in TLOU è un’esperienza tutt’altro che piacevole, nei panni di Ellie diventa agghiacciante.
Il cervo torna un’ultima volta subito dopo, all’inizio dell’ultimo capitolo di TLOU. L’inverno è alle spalle, Joel e Ellie sono appena arrivati a Salt Lake City, dove sperano di incontrare le Luci. Il disegno stilizzato di un cervo spunta su un muro della città abbandonata. Ellie resta imbambolata a guardarlo, per poi proseguire il viaggio in silenzio. Joel è preoccupato. In questo caso è lui a sapere qualcosa in meno rispetto a Ellie e al giocatore: ignora cioè cosa rappresenti il cervo per la ragazzina.
Siamo in primavera, tempo di rinascita, di trasformazione in qualcosa di nuovo. Immune al Cordyceps, a differenza degli altri umani Ellie non può trasformarsi in alcun mostro. L’unica mutazione che poteva toccarle era quella da bambina ad adulta, ed è avvenuta nel contatto ravvicinato con l’orrore puramente umano – e non con gli infetti, ancora una volta.
Poco dopo, girando per Salt Lake City, Ellie si riscuoterà dalla visione del cervo osservando la natura che si è ripresa la città. Le giraffe fuggite dallo zoo pascolano libere in un parcheggio ricoperto di edera e erbacce tra carcasse di automobili e edifici abbandonati. La meraviglia contagerà anche Joel (e noi giocatori che siamo tornati a impersonarlo), tanto da portarlo a chiedersi se non sia il caso di tornare indietro, di lasciar perdere le Luci, la ricerca del vaccino per cui lui e la ragazzina hanno tanto camminato e combattuto.
“Non può essere tutto inutile” risponde Ellie. La nuova Ellie, quella che con tutta probabilità sarà la protagonista assoluta della seconda parte di TLOU, è sì una piccola fredda e impressionante macchina da guerra, ma è ancora in grado di restare secca di fronte alla natura, di andare oltre se stessa fino a sacrificarsi per una causa più grande, quale che sia. A differenza del vecchio Joel.
(Minima&Moralia, 3 febbraio 2020)
Turismo e videogiochi: il viaggio di The Last of Us
The Last of Us è stato il primo videogioco che ho provato su Playstation 4. L’ho completato due volte di fila. La seconda volta, lo ammetto, soprattutto per scattare fotografie in giro per l’ambiente di gioco – per quanto la definizione di “gioco” stia molto stretta a un’esperienza come TLOU.
Del resto era anche la prima volta che testavo la modalità foto della PS4. Mi sono divertito molto – direi come un turista – a esplorare questo “bellissimo mondo devastato da una pandemia”, per citare lo slogan sul retro della confezione del gioco. E proprio turisti vengono definiti i disperati che si avventurano nelle zone di quarantena sparse per l’America settentrionale di TLOU.
Sono sempre più convinto che quella del turista sia la condizione primaria di ogni videogiocatore, specie quando parliamo di giochi che presuppongono un minimo di esplorazione. Vai alla scoperta di un mondo che non conosci, o che conosci da foto e video visti su Internet. Pian piano entri in dialogo con l’ambiente circostante, all’interno del quale ti muovi prima con cautela e poi con maggiore sicurezza, soprattutto una volta compreso come rapportarti con chi, ostile o meno, abita quei luoghi.
Nel frattempo puoi contemplare il paesaggio, cercare l’inquadratura migliore per una foto da mostrare agli amici o anche solo fermarti a pensare se non sia più giusto limitarsi a vivere quel momento, piuttosto che immortalarlo. È ciò che succede a tutti noi quando siamo in viaggio.
Per quanto possano apparire sinonimi, due termini come “viaggio” e “turismo” non sono completamente sovrapponibili. Semplificando, potremmo dire che il turista è sempre un viaggiatore, mentre non è detto il contrario. Si può essere viaggiatori per caso o costrizione (penso ai migranti), mentre si sceglie di essere turisti (e si sceglie la meta di destinazione).
Ad esempio io ho scelto di viaggiare all’interno di TLOU, mentre non si può dire lo stesso dei suoi protagonisti Joel ed Ellie, costretti alla fuga per sopravvivere. Come un turista, inoltre, avevo delle aspettative verso i posti in cui sarei andato, aspettative relative al fatto che li avevo già visti in rete (recensioni, foto e playthrough: come prima di prenotare un albergo o un bnb).
Altra differenza, non meno sostanziale: non sempre il semplice viaggio contempla il racconto (durante o a posteriori). Se l’esperienza è stata poco piacevole o addirittura traumatica, l’intero viaggio o alcune sue parti possono essere omesse o rimosse: non tutti i migranti, ad esempio, hanno voglia di raccontare le parti più difficili o brutali del loro cammino, così come non è detto che Ellie abbia raccontato a Joel tutti i dettagli del suo incontro col cannibale David.
Al contrario, non è esagerato dire che il turista viaggi soprattutto per raccontare. Se pensiamo ai travel blogger, il racconto diventa addirittura un lavoro e soprattutto un’attività istantanea, da comunicare in tempo reale al proprio pubblico.
Riassumendo: io, che ho scelto di visitare i luoghi di TLOU, verso i quali avevo delle aspettative, sono qui a raccontare il mio tour mostrando le foto del mio viaggio, e questo fa di me un turista. E cos’ha rappresentato questo viaggio dentro TLOU? La possibilità di essere altro da me per qualche tempo: ecco un altro punto d’incontro tra turismo e videogiochi.
Certo, è chiaro che parlare di turismo a proposito di TLOU può suonare strano, a meno di non fare riferimento a una forma di turismo piuttosto specifica e morbosa come il turismo cosiddetto dell’orrore. La componente survival horror del gioco e i suoi paesaggi devastati non devono però trarre in inganno: al fondo di TLOU c’è il rapporto tra un padre in lutto, Joel, e la piccola Ellie che viaggia con lui – al massimo, e impropriamente, si potrebbe definire quello di TLOU turismo medicale, visto che i due sono pur sempre alla ricerca di un vaccino.
Il punto però è un altro, e più che con la natura del gioco ha a che fare con quella del turismo. Il turismo come esperienza rilassante, ludica o culturale, e in ogni caso legata al consumo, è un’idea relativamente recente. Ancor più recente è l’idea di andare per luoghi preconfezionati e rassicuranti, in cui ogni momento del viaggio è programmato al millesimo di secondo.
Il turismo di massa o d’élite è pur sempre turismo popolare, se pensiamo al fatto che fino a qualche secolo fa il viaggio programmato era appannaggio di pochi uomini al mondo. E a cosa servivano i grand tour dei giovani aristocratici nell’Europa continentale del XVII secolo? Semplicemente, a conoscere. La conoscenza in sé non è un’esperienza automaticamente piacevole.
Quei tour si facevano in luoghi sconosciuti o quasi. Si poteva incontrare di tutto sulla propria strada: il sublime, lo strano, il perturbante. Anche l’orrore. Il mondo non era ancora stato mappato del tutto. Per fare un esempio, viaggiare nell’Italia dell’epoca poteva riservare molte sorprese: la bellezza di Firenze o di Roma, la miseria del centro e del sud Italia, l’asprezza eterna e conturbante delle isole. A seconda del tour, si faceva i conti con climi completamente diversi, lingue inascoltabili, paesaggi tanto incredibili quanto improvvisamente ostili.
Tutto sommato, e nonostante oggi sia un’esperienza molto più apparecchiata e mediatizzata, viaggiare si porta ancora dietro il fascino dell’imprevisto, dell’ignoto. Col tempo, anche le esperienze più spiacevoli capitate nel corso di una gita si raccontano con più piacere (anche per chi ascolta), rispetto alle tappe di un viaggio filato fin troppo liscio.
Tornando all’orrore, il gioco di parole può suonare scontato: ma quanto si assomigliano orrore ed errare, con tutto il carico di ambiguità che si porta dietro quest’ultima parola? E proseguendo coi giochi di parole: quanto è vero, se pensiamo a TLOU, che orrore humanum est?
Perché l’orrore, nel gioco, è interno, non esterno. Ha poco a che fare con gli ambienti e i paesaggi, e molto con ciò che è in grado di compiere l’uomo in uno stato di disperazione e privazione quasi assoluta. È all’interno dell’animo umano, che si annida l’orrore di TLOU.
Di contro, fermarsi a osservare la natura che si riaffaccia nelle città abbandonate può rivelarsi quasi rinfrancante, dopo uno scontro con gli infetti o con le bande dei cacciatori. Col tempo, anche le esplosioni fungine che fioriscono sui muri delle abitazioni iniziano ad assumere un certo fascino, per quanto osservate al buio o alla luce di una piccola torcia. Hanno qualcosa di artistico, di quel tipo d’arte naturale che ci meraviglia perché sembra esprimere un senso estetico soggettivo, e di conseguenza una volontà. Nel corso del gioco, questo senso di meraviglia – che soprattutto nel finale assoceremo alla piccola Ellie – è ciò che ci tiene a galla, che ci fa andare avanti nonostante le brutalità e le violenze degli esseri umani.
Erbacce, rampicanti, pozze d’acqua che allagano edifici, animali esotici che scorrazzano liberi: alla lunga, la rivincita della natura ci fa ridefinire il concetto di fine del mondo. Non a caso, la pandemia che ha estinto il 60% della popolazione mondiale si deve a un fungo particolarmente aggressivo, non a qualche strano virus messo in giro e sfuggito al controllo dell’uomo. La fine del mondo del ventennio 2013-2033 raccontata da TLOU è semplicemente la nostra fine, la fine della contemporaneità, decisa sostanzialmente dalla natura.
Contemporaneità che viene riesumata soprattutto negli interni, dettagliatissimi, e negli oggetti che incontriamo nel corso del nostro viaggio. Vecchi hotel abbandonati, baite, abitazioni di gente comune in cui troviamo musicassette, poster, fumetti – tutto l’immaginario di un mondo che non c’è più e che però è ancora quello presente del videogiocatore.
Persino i Jersey di calcestruzzo in giro per Salt Lake City rimandano al nostro presente di terrorismi urbani e decreti sicurezza apparentemente rassicuranti, se vogliamo. Questi rimandi non fanno che operare sull’effetto nostalgia che permea alcuni momenti di TLOU. E la nostalgia come specchio deformante, che migliora sempre il passato e peggiora in automatico il presente è un altro tratto tipico di ogni viaggio da turisti.
Allo stesso modo dei posti che ho visitato nella cosiddetta vita reale, ho la sensazione di essere stato davvero nei luoghi di TLOU, così come in quelli di tantissimi altri videogiochi. E anche per questi mi capita di provare nostalgia, come per quelli visti dal vivo. È una sensazione più forte rispetto a quella che si può provare per i luoghi visitati in un libro o in un film: perché in un videogioco siamo noi a muoverci e a relazionarci in prima persona con l’ambiente circostante. L’immersione per diverse ore in un ambiente digitale può fare uno strano effetto. Ma è per questo strano effetto, più che per una più rassicurante piacevolezza, che viaggiamo e giochiamo.
(N3rdcore, 18 febbraio 2020)