Totò ebbe tre funerali.
Il primo a Roma, a Sant’Eugenio, dove arrivò gente da tutta Italia. Il secondo nella chiesa del Carmine Maggiore a Napoli, con la città totalmente bloccata per l’occasione, dove pure accorsero 250mila persone da tutto il Paese per salutare il Principe.
Il terzo funerale si tenne di nuovo a Napoli, stavolta nel rione Sanità, con una bara vuota. L’idea, imposta “con le buone” alla famiglia di Totò, era stata di Naso ‘e cane, un capobastone del quartiere che ci teneva che l’attore avesse un funerale anche nel rione dov’era nato.
L’ossessione per il corpo del defunto attore napoletano ribalta il classico assunto per cui quando pensiamo a Totò pensiamo a una maschera. In realtà Totò era tutta faccia, e tutto corpo. Un corpo forte a dispetto delle apparenze, che Antonio De Curtis allenò ogni giorno con dedizione e costanza fino all’ultimo.
I movimenti da marionetta li apprese rubandoli al suo maestro Gustavo De Marco, ma li estremizzò con esercizi sfiancanti per rendere più elastica ogni fibra di quell’involucro di pelle e ossa apparentemente dimesso.
Quanto alla faccia di Totò: era “storta”, sì, ma non dalla nascita. Un compagno di collegio gli ruppe il naso, boxando, e così il setto nasale deviò a destra. Il resto lo fece lo stesso Totò, di proposito: per diversi giorni provò a slogarsi la mascella muovendola di qua e di là, finché non si “sganciò” procurandogli un dolore allucinante.
Passato il dolore, il giovane Totò realizzò che l’opera era completa: Antonio poteva iniziare a diventare Totò.
È curioso quindi che nel film Il più comico spettacolo del mondo, Totò interpreti un clown costretto a non struccarsi mai per non svelare la sua identità. Un trucco che a posteriori ricorda quello del Joker di Joaquin Phoenix.
Si tratta ovviamente di un collegamento che potrebbe apparire del tutto arbitrario, ma guardando il celebre spezzone della preghiera del clown ho pensato che, così come Totò si rivolge a Dio per esplicitare la sua poetica, nel finale del film di Todd Phillips Arthur Fleck fa lo stesso rivolgendosi però al pubblico televisivo.
Si tratta di due poetiche opposte, ovviamente. Quella di Totò può apparire positiva e compassionevole, mentre quella del Joker sembrerebbe il suo esatto contrario – anche perché porta all’omicidio di Murray e al caos in città.
Ma a ben guardare, Totò ringrazia Dio – un’entità creata dall’uomo – per avergli dato una faccia-maschera e la conseguente possibilità di far ridere, di distrarre gli uomini dalla miseria; Joker invece usa una faccia-maschera per rivolgersi agli uomini al di là dello schermo e strappare il velo delle apparenze, per dire le cose come stanno.
Ci sono poi altre connessioni – pensate sempre a posteriori, dunque sempre un po’ strane – tra Totò e il Joker/Arthur Fleck.
Sia la marionetta di Totò che lo schizoide di Phoenix rappresentano, secondo interpretazioni classiche e ormai quasi didascaliche, l’automa, l’uomo-macchina alienato, schiavo del meccanismo della società borghese/capitalista. Ed entrambi “usano” le figure di riferimento per disinnescare la condizione di schiavitù: Totò esasperando e saturando i movimenti dell’androide (e poi con i calembour e i giochi di parole entrati nell’uso comune di tutti o quasi gli italiani), Fleck smettendo con le pillole e accogliendo l’insanità deliberata, senza più freni, del Joker.
C’è poi la ricerca del padre. Totò nacque come Antonio Clemente da una relazione della madre Anna con il nobile Giuseppe De Curtis, subito sparito nel nulla. L’attore impiegò gran parte della sua giovinezza nella ricerca di Giuseppe, denotando una certa ossessione per i titoli nobiliari dei De Curtis. Così si fece prima adottare da un altro nobile, Francesco Maria Gagliardi Focas di Tertiveri, acquisendo il titolo di marchese, e poi convinse lo stesso De Curtis – pare dietro compenso, dato che Giuseppe era ormai decaduto – a tornare da Anna.
Anche Arthur Fleck cresce con la sola madre accanto, e anche lui a un certo punto viene preso dalla fissazione di trovare dei nobili natali. Si mette quindi a ricostruire la storia della madre, e anche questa fissazione, come l’ossessione di Totò (che fino a prima dei successi teatrali a Roma visse praticamente in miseria), si mostra per quello che è: la spia del desiderio di riscatto e legittimazione da parte di un signor nessuno. E chi, nel XXI secolo, può rappresentare l’equivalente dei nobili e dei marchesi inseguiti da Totò, se non il tycoon Thomas Wayne, padre di Bruce (e dunque di Batman)?
Entrambe le storie di Totò e del Joker si concludono con l’occultamento del corpo: quello di Fleck viene sottratto, con l’arresto e l’incarcerazione, alla società che vorrebbe sovvertire, mentre quello di Totò si smaterializza del tutto nell’episodio del funerale con la bara vuota a Sanità.
Una pagliacciata, quest’ultima, che come ogni messinscena serve però a dire una verità: quella sull’affetto che i napoletani e tutti gli italiani provavano per il finto, dunque vero, Principe Antonio De Curtis.