Dall’ fort’. Il Medimex 2018 a Taranto

A sinistra, sul lungomare della città vecchia di Taranto, scorre il paesaggio scostante di case abbandonate e alberghi di recente ristrutturazione, mentre alle spalle gli altoforni dell’Ilva pigolano di rosso e grigio nel blu del cielo. Gli autobus di linea sfrecciano anche in curva, nella corsia dedicata, dove si avventurano pure gli scooter che si fanno strada nel traffico infinito verso il centro.

L’acqua oltre la ringhiera, qualche metro più in basso, è limpidissima. Gli scogli sono ben visibili dall’alto; tra una sirenetta di pietra e l’altra svetta la maestosità delle grandi navi che stazionano in mare aperto. Siamo su un’isola, e le isole riservano sempre molte sorprese. Qualche minuto prima eravamo nei pressi del ponte di pietra, un parcheggiatore abusivo gentile e sdentato aveva detto che avremmo potuto pagare dopo, a fine serata, se non avevamo spiccioli. Sotto il ponte alcuni giovani uomini a petto nudo pulivano le cozze nelle loro bacinelle.

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L’odore di salsedine è forte, e lo sarà per entrambi i giorni, perché sono giorni di vento. Che a Taranto significa anche polvere rossa che si posa sui muri e sui balconi delle case di Tamburi, il quartiere che ha fatto da benvenuto all’ingresso in città. La polvere rossa è quella dell’Ilva, ovviamente. Sono abituato al suo odore di sangue mestruale rappreso, di scorreggia metallizzata. La polvere che da sempre, da che ho memoria, incrosta l’asfalto e i guardrail sulla statale che da Brindisi porta verso Bari e Matera.

Il mio è sempre stato un punto di vista privilegiato. Sin da bambino, in auto coi miei ogni domenica, osservavo l’Ilva da fuori, come se la fabbrica acconsentisse di tanto in tanto al passaggio, lasciandosi attraversare: l’acciaieria senza vita umana attorno, senza città attorno, o piuttosto come se l’acciaieria fosse la città e Taranto un fatto implicito. L’Ilva come zona proibita che produce non solo morte ma anche suoni, colori, ruggine, con la sua immensità da immaginario distopico, e che sembra aver prodotto anche la città, in fondo: Taranto e tutto il suo hinterland di periferie di palazzoni e villette residenziali costruite appositamente come supporto produttivo della fabbrica, come software umano per l’acciaieria-hardware.

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Ma oggi siamo sul lungomare, dove la polvere rossa forse non arriva: al massimo il vento disturberà l’audio dei concerti. Attraversato il ponte girevole e il Castello Aragonese, siamo in centro. Agli edifici fatiscenti dell’isola si sostituiscono i grattacieli, i caffè alla moda, qualche altro palazzo in ristrutturazione, l’imponente architettura fascista della prefettura. La zona è interdetta al traffico per via delle misure di sicurezza, i jersey di cemento sono al loro posto a impedire l’accesso in auto alla maggior parte delle vie e al lungomare. Nel primo pomeriggio la città è svuotata, quindi è come se l’attacco terroristico ci fosse già stato e nessuno o quasi fosse sopravvissuto.

Ai Giardini Peripato ci sono alcuni eventi collaterali del Medimex. Sulla scalinata all’ingresso sta immobile un ragazzone della security. Quando alcuni tarantini con cane al guinzaglio cercano di entrare, li blocca. “Mi piace tantissimo quel cane” dice, indicando un boxer, “ma oggi non può entrare”. Il proprietario del cane protesta. Dice che non vuol fare polemica, ma di fatto continua a lamentarsi: è il suo giro quotidiano dopo la corsa, non è giusto che non possa finirlo come ogni giorno, per giunta senza preavviso. A quel punto si mette in mezzo un concittadino piuttosto combattivo, con tutta probabilità diretto nel centro dei giardini: sostiene che Taranto è una città europea come le altre, e che va applicato il regolamento del festival. Ovvero: i cani possono entrare nei giardini come ai concerti, basta mettergli la museruola. Il cittadino insiste, chiama altra security, i vigili, saluta Michele Emiliano e Loredana Capone che passano di lì, si lamenta del fatto che non tutti i tarantini stanno dando il massimo per il festival, tranquillizza quelli della security – “Non ce l’ho con voi, voi state lavorando” – finché la battaglia non è vinta: i cani possono entrare e la security sparisce per qualche ora dall’ingresso dei giardini.

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Dentro, i Giardini Peripato sono un’oasi di decadenza fuori dal tempo. Le radici dell’Albero di Giuda (o forse Jacaranda?) sollevano l’asfalto e lo spaccano, e in quelle fessure si concentra l’oro dei fiori sbriciolati di tiglio. Il tappeto di foglie viola porta al vialetto centrale, dove ci sono gli stand di etichette musicali e altri festival e l’immancabile punto ristoro fighetto con le bottigliette d’acqua a 2 euro. In fondo c’è il palco su cui andranno in scena i talk con artisti, produttori e organizzatori di concerti, la parte fieristica del Medimex.

Dietro uno stand c’è Michele Riondino. Sta lì da solo, è ancora presto, finché non riappare Michele Emiliano che va a salutarlo. Allora si forma un capannello, alcuni tarantini circondano il governatore e l’attore e chiedono dell’Ilva. Suppongo siano parte del comitato che organizza il concerto dell’1 maggio di Taranto, perché cercano la sponda dell’amico Riondino. Emiliano dice qualcosa sulla chiusura dell’acciaieria, rivendica di aver fatto e di fare tutto il possibile, Calenda di qua, Calenda di là, la bonifica… Uno di questi tarantini ha gli zoccoli ai piedi. “Meh, dai, già il fatto di fare il Medimex qua è un passo verso la chiusura” dice. Emiliano suda un sacco.

Riondino viene bloccato ogni mezzo metro. Saluti, selfie, appelli, pareri. Lo fermano tutti: tarantini, giornalisti, musicisti. Qualcosa di simile accade anche con Diodato, che finito il talk sotto il sole con Ernesto Assante se ne va in giro per gli stand. Anche lui viene fermato per un selfie, per un incoraggiamento. La televisione, penso, ha un effetto strano su alcuni eroi locali, sulle speranze in essi riposte dai loro concittadini. Chissà cosa ne penserebbe Alessandro Leogrande, che studiò a lungo il fenomeno Cito, il sindaco di Taranto (poi anche deputato) che costruì la sua fortuna e la sua fama grazie alle tv private ben prima di Berlusconi.

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Il pomeriggio passa tranquillo. Intercetto qualche organizzatore, mi sembrano tutti più stanchi che tesi: c’è stato qualche problema col volo di Max Gazzè, che non potrà prendere parte al suo talk, ma in generale tutto sembra filare liscio. “Stiamo portando un po’ di economia a Taranto” sento dire a qualcuno, “ai commercianti del centro”. Il fatto è che portare qui il Medimex non è tanto trasferire un festival importante da Bari a Taranto, quanto confrontarsi col fatto che Taranto con la sua potenza, col suo carattere complesso e orgoglioso può fagocitare il festival. E infatti devo dire che in tutta questa storia non ci sarà un solo essere umano in grado di rubare davvero la scena alla città: nessun essere umano che mi abbia estorto più curiosità del contesto.

Lascio i giardini per raggiungere il MarTa, il museo archeologico poco distante, dove in prima serata è previsto il vernissage della mostra su Kurt Cobain e sul grunge. L’accesso riservato a questo evento cult è uno dei pochi vantaggi che derivano dal possedere un accredito. Per il resto, il badge è solo il motore di sguardi e curiosità reciproca con gli altri fortunati: ci si guarda e si indaga il petto altrui come a dire “E tu chi sei, che ci fai qui, per chi scrivi?”.

La mostra di Charles Peterson e Michael Lavine è forse tra le cose più struggenti del programma dell’intero Medimex. Soprattutto nelle foto degli inizi dei Nirvana, in cui non c’è ancora neppure Dave Grohl, si intravede qualcosa di puro e sporco nel momento in cui l’industria si accorgeva di potergli succhiare il midollo, contaminandolo. Le foto dei primi concerti hanno al centro un Kurt Cobain spiritato e tristemente felice, e poi il pogo violento, le risse sottopalco e i musicisti finiti di sotto fanno il resto. Scorrendo i ritratti di Eddie Vedder, Mark Lanegan e soprattutto di Chris Cornell si ha la sensazione religiosa del sacrificio: questi cristi del rock sono morti o ci sono andati vicino perché vent’anni dopo noi potessimo celebrare i loro concerti come veri e propri fedeli, coi cellulari sempre in aria a riprendere il brano più famoso, a immortalare l’attimo e poter dire che c’eravamo. E questo non c’entra solo con la morte fisica, quella di Cobain o Cornell, ma ha a che fare con le generazioni di fan che si accumulano una sull’altra come strati di pittura all’interno di una chiesa nel corso dei secoli, dunque con l’archeologia e con la musealizzazione persino del punk, del metal e del grunge, senza dimenticare il nostro rapporto con gli idoli mediatici che non a caso iniziano a riposare accanto alle divinità antiche della Magna Grecia.

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L’anno scorso, a Bari sempre per il Medimex, Iggy Pop fu venerato come un vero e proprio sacerdote di una setta perduta e raffinata: eppure la sua messinscena di dolore, tarantismo e autofustigazione è forse uno degli spettacoli più autenticamente tragici che l’arte novecentesca abbia saputo produrre. L’idolatria in nome del semplice atto d’amore. Al tempo stesso, l’anno scorso si gridava all’evento del secolo: eppure Iggy Pop era stato già a Melpignano (la città della Taranta, appunto) nemmeno dieci anni prima, per di più con gli Stooges. All’epoca si era detto che l’Iguana era ormai troppo vecchio per esibirsi ancora.

Nel chiostro del museo mi fermo a sedere in pausa dal caldo e approfitto del prosecco del buffet. Accanto a me una ragazza vestita di nero fuma nervosamente, in mano ha un piccolo portacenere portatile di forma rotonda. Non mi vede, non sono visto. La raggiunge un’amica, dall’interno del giardino del chiostro, e poi da dietro si accosta anche uno dei fotografi (non so se sia Lavine o Peterson). L’amica, una spilungona sui due metri, dice al fotografo, severa, in italiano: “Io e te dobbiamo parlare”. Lui arretra, sembra preoccupato per il rimprovero in arrivo. La ragazza intanto continua a fumare guardando nel vuoto. Potrei stare lì a origliare, di solito sono bravo in questo, ma non so perché mi sembra di violare la privacy del Medimex intero.

Alzandomi incrocio una donna dell’organizzazione. Cammina con passo svelto, ha due bicchieri pieni in mano e le sta squillando il telefono. Quando mi arriva di fronte si ferma per tirare fuori l’apparecchio da una tasca, così mi offro di tenerle uno dei bicchieri. Lei ringrazia, sorride con estrema gentilezza, dice che dovrebbe farcela da sola. È uno dei pochi momenti in cui, andando contro la mia rigidissima teoria del reportage, mi azzardo a perturbare l’ambiente che osservo.

Prima di andare via sento il bisogno di rivedere la mostra. Nel bianco e nero delle prime fotografie c’è qualcosa di felice e sconfortante. Da cosa nasceva quella rabbia, quanto era autentica e dove avrebbe portato tutti noi? È in quello che è successo dopo, che viviamo oggi. Tutto è automaticamente mainstream o non è. Il conflitto insabbiato, lo sporco e le deformità escluse dalla scena, al massimo codificate nelle lingue antitetiche della paranoia o del politicamente corretto. In fondo, se mi arrischio a corredare questo racconto con delle foto in bassissima risoluzione (oltre che storte), è anche un po’ per omaggiare un certo sguardo corrosivo, la possibilità di esserne ancora corrosi senza intellettualizzarlo, senza prenderne le distanze emotive. Senza annoiarsi.

C’è anche un altro fatto, però – parlando ancora di fotografie e di accrediti. Solo dieci fotografi potranno stare sottopalco durante i concerti: la maggior parte resta fuori nonostante il badge (ai cani la museruola, a noi della stampa il collare, mi viene da pensare). Tra gli esclusi anche una ragazza dalla pelle un po’ scura e i tratti somatici netti, da indiana: tutto il giorno a rimbalzare per il centro di Taranto da una location all’altra, e poi per terra ad aspettare l’inizio dei concerti come tutti gli altri, sperando di riuscire a scattare qualche foto decente da lontano. Mi verrebbe da chiederle se non ha qualche foto da regalarmi per il mio reportage, allora, dal momento che non ho grandi pretese: alla fine decido di affidarmi comunque alle deformità della camera del mio smartphone.

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Ma deforme, in fondo, è anche Taranto. Come fanno a convivere insieme così tanti aspetti apparentemente inconciliabili? L’orgoglio di Sparta, la pietra erosa dal mare dell’isola, le sue palline di eroina che fanno il giro della provincia, le madonne, i neon dei ristoranti sul molo, l’eleganza del centro, il postumano delle periferie come Paolo VI, il presente perennemente distopico dell’Ilva che vigila su ogni cosa con le sue ciminiere? E ancora, le discoteche dell’hinterland in cui si balla fino a notte fonda sui Depeche Mode, le spiagge mozzafiato, la corruzione, la criminalità, gli edifici diroccati e quelli modernissimi? Come può esistere tanta concordia (perché c’è), tanta armonia (perché c’è) in quest’apparente discontinuità? Come fa a stare insieme il vuoto col pieno, il debordante col minimale, il sublime col grottesco, il desolante con l’eccentrico, l’elettrico con l’analogico, l’industriale con l’archeologico? Uno svizzero uscirebbe pazzo, qui. Invece per noi Taranto, la sua continuità nella discontinuità, dovrebbe essere un invito a prendere la realtà per quella che è, a non voltarci dall’altra parte nella rappresentazione, nell’autoconsolazione di meridionali afflitti, prossimi all’estinzione. E da qui, da questo spazio di possibilità espanse, provare ad agire all’interno dell’anomalia apparente.

Con questi pensieri ancora confusi lascio il museo e proseguo verso il lungomare, verso l’ingresso dei concerti. Mentre scende la sera, il cantato toast su base drum’n’bass di Roni Size rimbalza tra il muro della prefettura e un palazzo accanto. Davanti alle transenne inizia a formarsi una fila piuttosto lunga. Sono passate da poco le otto, l’evento è iniziato in perfetto orario. Vedo l’ultimo marinaio che si aggira per strada: questi omini vestiti di bianco, sempre sorridenti e gentili, sono stati un’altra costante dell’intero pomeriggio, apparizioni su cui Paolo Sorrentino potrebbe costruire due o tre scene di un nuovo film. La fila intanto si fa sempre più lunga, arriva quasi fino al ristorante L’assassino: accredito o meno, mi toccherà farla. Da fuori intravedo un maxischermo, Roni Size sta per finire ma spero di riuscire a posizionarmi bene almeno per i Kraftwerk.

Nonostante il centro bloccato, comunque, i tarantini non hanno rinunciato all’uscita serale sul lungomare. Passeggiano paralleli alla fila o se ne stanno appollaiati in grappoli familiari sulle panchine di pietra. Sullo sfondo del mare la nave ancora ferma a sonnecchiare sospesa sul mare. Fossi in loro, nelle famiglie e nei ragazzini, guardando le centinaia di persone in attesa penserei: chi glielo fa fare?

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Verso le nove e mezza la fila comincia a procedere più spedita. Alle dieci meno un quarto il grosso del pubblico è dentro, nello spiazzo della rotonda del lungomare che secondo qualcuno non era adatto a questo tipo di evento. Di fatto stiamo comodi e larghi, si respira, il palco è ben visibile da ogni angolo del posto. Di colpo mi torna in mente la voce di corridoio dell’anno scorso quando si è saputo dello spostamento del Medimex a Taranto: Emiliano vuole portarci Bruce Springsteen, si diceva.

Niente Boss, allora, ma Emiliano è presente anche qui, al concerto dei Kraftwerk. Indossa anche lui gli occhialini 3D che abbiamo ricevuto in dotazione all’ingresso, si concede per qualche selfie, è sempre più sudato. Alle 22.30, puntualissimi, i Kraftwerk iniziano a suonare. Finiranno altrettanto in orario, a mezzanotte e qualche minuto.

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Al di là dell’impianto scenografico, al di là del 3D e dei render che fanno molto vaporwave ante litteram, la musica dei Kraftwerk contiene una trappola, che è quella dell’archeologica musicale. Il rischio, insomma, è quello di ascoltarli pensando, di brano in brano, a come hanno influenzato l’elettronica dei Radiohead, dei Lali Puna, di Bjork o chissà chi altro. Questa è una trappola per me, ovviamente: perché tra il pubblico non manca chi balla, anche un po’ su di giri, cercando e trovando la visione. In particolare, un tizio che ricorda vagamente l’enorme Sagat di Street Fighter rimodula le norme e il bon ton della prossemica: balla lentamente roteando insieme con spalle, gomiti e ginocchia, disegnandosi un cerchio vuoto intorno. Di tanto in tanto esclama, tranquillo, come se fosse in connessione coi quattro tedeschi sul palco: “Dall’ fort’!”.

Com’è e come non è, per me la musica dei Kraftwerk ha senso se l’accosto a qualcosa di pittorico. E ancora una volta non è per i visual del concerto: sullo schermo, l’astronave in 3D che si posa sul lungomare, accanto al Castello Aragonese, è una trovata squisitamente kitsch come possono esserlo oggi le tute alla Tron indossate dai tedeschi. Ma se chiudo gli occhi mentre suonano i Kraftwerk vedo un mondo alternativo in cui il duello tra uomo e macchina è cessato e non c’è più alcuna nostalgia della carne. We are the robots surclassa allora l’hashtag di promozione turistica #weareinpuglia, e per una volta esiste solo una sinistra, inquietante metafisica della macchina che vive nel clangore meccanico del treno di Trans Europe Express o nei bagliori dell’acciaieria vicina, oltre il ponte di pietra. Ecco, se una nostalgia permane è forse quella per la tecnologia fisica, fatta di cavi e computer con case enormi, dal design retrofuturistico; eppure, per quanto possa suonare strano, ci affezioneremo e proveremo nostalgia anche per le vite digitali, per l’invisibilità del cloud e dei video di un concerto dei Kraftwerk condivisi in diretta via Whatsapp. Siamo umani per questo, anche in questo, in fondo: perché ci affezioniamo a tutto nel momento in cui lo perdiamo.

Un tipo di tecnologia per cui non proveremo alcuna nostalgia è invece l’amplificazione dei concerti del Medimex: i volumi sono molto bassi, al di là del vento, e si soffre soprattutto coi Placebo, il giorno dopo i Kraftwerk. Anche se coi Placebo, a dirla tutta, si soffre per più ragioni: tranne che per la loro musica, che a vent’anni di distanza suona stranamente felice.

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Sarà un po’ per lo spirito di celebrazione che ha colpito parte del pubblico di Iggy Pop lo scorso anno, sarà che Brian Molko è un vero professionista: di fatto, l’incipit di Pure morning con cui la band attacca a suonare è un momento di vera gioia condivisa. In generale, sono più i momenti elettrizzanti che quelli di cupa tristezza cui siamo soliti associare la musica dei Placebo. Le parti del concerto perse nel vento sono ripagate dai momenti in cui quello s’imbizzarrisce soffiando al contrario, quando all’improvviso le schitarrate di Molko ti arrivano dritte in faccia. La sofferenza, allora, è legata proprio alla tecnologia digitale: proprio a partire da Pure morning è chiaro che tutto il concerto, molto più partecipato e ancora più intergenerazionale di quello dei Kraftwerk, sarà vissuto attraverso la mediazione degli smartphone, nemmeno fosse un involontario spettacolo trap per adolescenti.

Ecco quindi la musealizzazione del momento: fare archivio di ogni esperienza mentre la si vive. Non sono un bacchettone luddista, faccio anch’io le mie foto e i miei video durante i concerti, ma in generale, più un concerto è atteso, meno sto lì a riprenderlo. Paradossalmente, proprio l’adesione fideistica al sacramento dello spettacolo, oltre a far sanguinare gli occhi del Kurt Cobain delle foto di Peterson, impedisce di vivere la messa come Cristo comanda.

Non importa che i volumi siano bassi, non importa quanto tu abbia pagato e quanto lontano dal palco sia finito: l’importante è poter dire di esserci stato, e fa nulla se guardi il concerto attraverso uno schermo (se non il tuo, quello di chi ti sta davanti) o, peggio ancora, se passi i momenti in cui non riprendi a parlare con la persona con cui sei venuto, analizzando la serata, nota per nota, in diretta. Pur di esserci, la gente dimentica di stare.

Ad ogni modo, il concerto resta energico e divertente, e così per la maggior parte sfugge comunque al rischio di celebrazione, soprattutto più vicino al palco, dove i lampioni del lungomare sono spenti. Lo stesso Brian Molko, in fondo, sa bene che non è il caso di interpretare il pagliaccio di se stesso, e così suona, canta, ci mette tutto quello che ha ma non fa la scimmia né dà vita a spettacolini improbabili. Ha qualcosa di autentico che solo i grandi attori e cantanti e artisti hanno. Mi viene una nostalgia, ma non so di cosa, una nostalgia che poi si spegne quando torna la metafisica della macchina, quando cioè nell’encore break i Placebo lasciano suonare gli strumenti da soli per qualche minuto: il volume è finalmente giusto, il palco buio, il feedback delle chitarre si solleva come una bestia sinuosa e multiforme nella notte di Taranto e potrebbe andare avanti per ore, se non fosse che anche i Placebo hanno iniziato in orario per finire anche loro in un’ora umana, cui gli italiani e soprattutto i pugliesi sono poco abituati: mezzanotte e cinque minuti.

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In molti, prima e dopo il concerto, hanno parlato delle voci che davano Molko per finito, incapace di tenere il palco per più di quaranta minuti. Forse la nostalgia che mi ha preso a un certo punto era una sorta di nostalgia per la seconda metà degli anni ’90 in cui Molko era giovane, malaticcio e forte insieme, capace di scandalizzare, mentre nel corso del live mi era sembrato – almeno fino a prima del momento dei feedback – solo un professionista e un artista serissimo, decisamente solido. Ma che nostalgia è mai questa? Forse più un appiglio retorico, un pezzo di legno senza nemmeno il resto della zattera in un momento di confusione, in cui il rock è più celebrato che suonato. Un Brian Molko vivo e sereno non produce leggenda ma è onesto, quantomeno.

Il pubblico va via ordinatamente, senza accalcarsi e senza fretta. Pian piano il centro cittadino ritrova il suo ritmo e i suoi suoni, il traffico riprende a intasarsi e i bar riattivano gli altoparlanti. Eccezion fatta per i volumi e per la fila del primo giorno, l’organizzazione del Medimex in questi due giorni è stata impeccabile: compreso il fatto, non secondario, di aver tenuto bassi i prezzi di cibo e bevande quantomeno all’interno dell’area concerti.

Arrivati nei pressi del ponte girevole, più di qualcuno è incuriosito dal  videomapping un po’ sgangherato sulle mura del castello: non è a cura del Medimex, a quanto pare, ma chissà che quel Kanye? non sia un indizio per l’anno prossimo.

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Sul lungomare della città vecchia sfrecciano gli ultimi autobus e gli ultimi motorini, qualche auto invade la corsia destinata ai mezzi pubblici per accelerare verso il centro, finalmente liberato. Al molo Sant’Eligio c’è un dj set del Medimex, ci suonano una ragazza e un dj vestito come un pinguino. L’atmosfera è decisamente lounge, con gente in fila al bancone del bar e un forte odore di menta in tutto il locale. Una barchetta di lato al palco è agghindata con un tubo di neon, la notte è umida e un po’ meno ventosa di prima. Qualcuno ha ancora voglia di divertirsi, di ascoltare musica, di non farla finita qui: la lunga estate di eventi pugliesi è appena iniziata, e il festival andrà avanti ancora fino al 10 giugno.

Luccicano sull’acqua le luci gialle del porto, più lontano l’Ilva fuma e osserva la città per quello che è, aspettando che si addormenti per svegliarsi uguale a se stessa. Entrambe si scrolleranno presto di dosso questi giorni di festa come un sogno di polvere rossa.

(Minimaetmoralia, 15 giugno 2018)

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