Guardare Avengers: Endgame in un cinema di provincia

Sono ormai convinto da molto tempo che non esistano nord e sud né differenze tra città e provincia, e che tutto si giochi, nel mondo contemporaneo, nella dialettica tra centro e periferia. Che peraltro sono due categorie mobili: adesso io sono la periferia e tu il centro, un attimo dopo è vero il contrario e quello dopo ancora chissà. Ovviamente mi sbaglio, o quantomeno potrei esagerare: la provincia, almeno lei, esiste ancora, me lo ricorda la mia vita quotidiana.

La provincia è uno stato e un atteggiamento mentale che sopravvive ai cambi di residenza e di stagione, persino alle guerre. Ma è anche una serie di pratiche. Ci sono esperienze che puoi fare in un certo modo – dunque non da turista – solo in provincia. In provincia, specie in alcuni tipi di provincia, puoi ancora sperimentare il rito, ad esempio.

Una settimana fa (ho iniziato a scrivere queste righe nel pomeriggio del 27 aprile) a Francavilla, la città in cui vivo nel mezzo esatto tra Brindisi e Taranto, si sperimentavano i riti secolari legati alla Settimana Santa. Processioni, gente incappucciata, nenie notturne, altra gente incappucciata che trascina per ore delle enormi croci di legno sulle strade di pietra del centro storico. Una settimana dopo, ecco Avengers: Endgame, più di dieci anni di storie di supereroi che si concludono con un film di tre ore e un minuto per il quale c’è gente che ha prenotato il biglietto con mesi e mesi d’anticipo.

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Scrive Don DeLillo in Rumore bianco che la provincia non può che odiare la città, non può che provare raccapriccio per i suoi usi e costumi, sostanzialmente perché ne ha paura – paura di essere contagiata dalla mollezza e dall’ambiguità morale della cultura cittadina. Quando arrivo a concludere che non c’è più alcuna differenza tra città e provincia, penso anche al fatto che a Francavilla non abbiamo più timore delle usanze cittadine: non abbiamo un multisala ma il buon vecchio Cinema Teatro Italia, eppure ci fiondiamo in massa a vedere Avengers e dare così sostanza a un rito collettivo globale che, come l’uscita dell’ultima puntata del Trono di Spade o l’arrivo del Black Friday, convive coi nostri riti più antichi.

Quindi con Daniele, amico e compagno di sala di film Marvel (uno molto più attaccato al canone fumettistico di me, cui chiedo spesso delucidazioni anche rispetto, guarda un po’, alle tradizioni religiose), con Daniele, dicevo, abbiamo deciso che non era il caso di andare a vedere Endgame il primo giorno, il 24 aprile: temevamo il pienone, ovvero orde di ragazzini, bambini e peggio ancora genitori che avrebbero parlato e mangiato e controllato il telefono (o addirittura avrebbero fatto foto col flash allo schermo) durante tutto il film. Ci saremmo andati due giorni dopo, allora, per quanto ancora perplessi – saranno sufficienti due giorni per avere una sala più o meno vuota? –, ma consapevoli che il rischio spoiler, caratteristica imprescindibile del rito collettivo globale, era troppo alto per aspettare oltre.

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So bene che il cinema è una pratica sociale, anche quando in ballo non c’è un film evento, e che quindi bisogna tentare di avere un atteggiamento quanto più tollerante possibile. La mia insopportazione per il pubblico in sala è legata però proprio all’essere provinciale (in questo io sono uno snob, provinciale): e cioè all’incredulità. La base del cinema è la sospensione dell’incredulità, lo sappiamo a memoria, ma per dirla con DeLillo il provinciale ha come forma di autodifesa dalla città e dal cosmopolitismo il dubbio, lo scetticismo, una simpatica cretineria che riporta tutto al dato banale: davvero esistono i grattacieli?, davvero ci sono interi quartieri abitati da migranti?, com’è possibile che quel tizio voli e viaggi nel tempo? Il che è il bello della provincia e del suo umorismo, ma in sala rappresenta la fine di ogni esperienza cinematografica.

Eppure, Federico Fellini diceva: “Che cos’è un artista? Un provinciale che si trova da qualche parte a metà strada tra realtà fisica e realtà metafisica. Davanti a questa realtà metafisica siamo tutti provinciali. Chi sono i veri cittadini della trascendenza? I Santi. Ma il vero regno dell’artista è questo ‘in mezzo’ che chiamo provincia, questo paese di frontiera tra mondo tangibile e mondo intangibile”.

Dunque è possibile che quando un provinciale crede a qualcosa finisca col crederci più intensamente di un non provinciale? È possibile una visione quasi artistica, da parte di un provinciale al cinema? Vai a sapere.

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Ho trovato le parole di Fellini in un saggio di John Berger sul cinema, per caso, giusto il giorno prima di andare a vedere Endgame. Il saggio, tradotto da Maria Nadotti, ha un titolo che se vogliamo un po’ richiama proprio il senso di EndgameEv’ry time we say goodbye. L’incipit fa così: “Il cinema è stato inventato cent’anni fa. Durante questo periodo in tutto il mondo si è viaggiato come non si era mai fatto dalla fondazione delle prime città, quando i nomadi diventarono sedentari. Viene da pensare immediatamente al turismo, nonché ai viaggi d’affari, perché il mercato mondiale dipende dallo scambio continuo di merci e lavoro. Gli spostamenti, però, sono avvenuti per lo più sotto coercizione. Trasferimenti di intere popolazioni, rese profughe dalla carestia o dalla guerra. Un’ondata dopo l’altra di migranti, che lasciano il proprio paese per ragioni economiche o politiche, comunque per sopravvivere. Il nostro è il secolo del viaggio forzato. Arriverei a dire che il nostro è il secolo delle sparizioni. Il secolo in cui persone impotenti ne vedono altre, a loro prossime, sparire all’orizzonte. Con Ev’ry time we say goodbye John Coltrane ce lo ha ricordato per sempre. Forse non è così sorprendente che l’arte narrativa propria di questo secolo sia il cinema”.

Sì, direi proprio che Ev’ry time we say goodbye potrebbe essere il sottotitolo dell’ultimo Avengers. E nonostante Berger, scrivendo di un “secolo in cui persone impotenti ne vedono altre, a loro prossime, sparire all’orizzonte” si riferisse al XX secolo, le sue parole sembrano adatte a raccontare il XXI secolo e le sue migrazioni; non solo, se proviamo a metterci Endgame al posto del pezzo di Coltrane… be’, se avete visto il film potete capire cosa intendo: snap!, a volte basta uno schiocco di dita per perdere tutto, amici, parenti ed ex compagni di scuola che migrano altrove perché qui le cose non vanno – ed ecco il mio lamento nei momenti particolarmente intensi da drama queen di provincia, per giunta meridionale.

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Quando siamo arrivati al cinema con Daniele, alle 17.28 del 26 aprile 2019, c’era una discreta fila alla cassa. Pienone no, ma ragazzini e genitori con bambini fin troppo piccoli per stare tre ore in sala tranquilli sì, eccome. Ero pronto a prenderla con sportività: del resto Endgame non è che un fumettone, il Marvel Cinematic Universe intrattenimento di massa, cosa vuoi che sia se ti perdi un dialogo, una battuta. Ero pronto, soprattutto, a immaginare queste righe come una sorta di reportage da una trincea cinematografica di provincia.

Per salvare il salvabile, con Daniele ci siamo appostati in platea, in una zona dove non c’era troppa gente intorno. Qualche fila dietro c’era un tizio che ricordo dall’adolescenza, tale Panzerotto, che all’epoca invidiavo perché era decisamente più popolare di me. Era seduto con moglie e figlia piccolissima. Dopo dieci minuti dall’inizio del film, con Iron Man disteso nella navicella spaziale accanto a Nebula, l’ho sentito rispondere alla più naturale e prevedibile delle domande da parte della piccola – “È morto?” – con un altrettanto prevedibile “No, sta dormendo”. Ok, mi sono detto, Panzerotto finirà con lo spiegare tutto il film alla bambina, mentre intorno partirà l’orchestra dei soliti sgranocchiatori seriali e i cellulari suoneranno e illumineranno a giorno i volti di quelli delle prime file.

Come il fachiro al cinema di Paolo Conte ho iniziato a contorcermi con compulsione in attesa di ogni potenziale fonte di disturbo, suoni e luci e chiacchiere – ma inutilmente: in più di un’occasione Panzerotto ha zittito la bambina, e se ha fiatato è stato per ridere delle battute giuste e sottolineare il pathos di alcune scene, da vero fan. In generale nessuno ha parlato – momenti di silenzio assoluto, quasi religioso, nella prima parte del film, quella più parlata – e gli sgranocchiatori pure hanno sgranocchiato con educazione e parsimonia, se possibile. Telefoni non ne ho sentiti, e le luci erano solo quelle delle uscite d’emergenza.

I provinciali hanno creduto? Sì. Si sono fatti prendere e portare altrove dal racconto, per tre lunghissime ore, come dice John Berger a proposito della sostanza unica nel cinema in Ev’ry tme we say goodbye? Certo. Il mio snobismo provinciale è stato smentito? Pure, sì. Ma il punto è: com’è stato possibile? La risposta è forse in quel papà accompagnato da un ragazzino abbastanza cresciuto da poterci andare da solo, al cinema, incrociato a fine proiezione all’uscita dalla sala: probabilmente quando il Marvel Cinematic Universe è iniziato, quel ragazzino era un bambino e suo padre un giovane papà lettore di fumetti Marvel. O magari all’inizio il papà ci è andato da solo, a vedere i film, e gli altri li ha recuperati e visti e stravisti a casa col bambino, anno dopo anno, finché non ha portato anche lui a vedere Age of Ultron, Winter Soldier oppure Ragnarok. Chi può dirlo?

Il fatto è che il MCU ha coperto dieci anni delle nostre vite, e in questi dieci anni noi siamo cambiati e cresciuti con gli eroi che abbiamo seguito sullo schermo. Questi eroi sono diventati archetipi, hanno raccontato i nostri vizi, le nostre ambizioni e i nostri desideri meglio di qualsiasi altra forma di racconto, e questo al di là della qualità, spesso anche scarsa, dei singoli film del MCU. “Forse non è così sorprendente che l’arte narrativa propria di questo secolo sia il cinema”, potremmo dire ancora con John Berger, ma aggiungerei: “Il cinema seriale del MCU”.

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Perché di fatto non esiste rito senza mito. Non solo condividiamo l’uscita di un film come Endgame con milioni di sconosciuti in giro per il mondo: condividiamo anche il senso più profondo dell’epica supereroistica.

Endgame è quanto di più simile alla mitologia greca”, ha scritto un entusiastico critico dell’Hollywood Reporter. No, amico critico, ti sbagli: i film Marvel sono la nostra mitologia contemporanea. “Il cinema non è un’arte da principi o borghesi, è popolare e vagabonda”, dice sempre Berger nel suo saggio, e conclude: “Nel cielo del cinema uomini e donne capiscono quel che sarebbero potuti essere e scoprono quel che gli appartiene oltre alle loro singole vite”.

Ovviamente non sto usando le parole di John Berger per affermare che siamo tutti Tony Stark, Natasha Romanoff, Thor, Steve Rogers o Bruce Banner: sto dicendo che una parte di noi si rispecchia nelle tribolazioni e nei desideri di questi eroi, di questi Santi (direbbe Fellini). Sappiamo cosa significa essere schiacciati dal peso delle responsabilità, oppure essere una persona brillante che non ha più una vita privata, o ancora un narciso patologico, e perché no un vecchio arnese sopravvissuto a un’epoca di ideologie non più credibili in un mondo completamente cambiato. D’altra parte, per tornare ai riti di provincia, il punto non è tanto credere a Gesù o alla Madonna, ma riconoscerci nel dolore di una madre che perde il figlio, nell’ingiusta umiliazione subita da quel figlio.

Si obietterà che a differenza dei miti greci o delle storie cristiane o ebraiche (e cos’è il cristianesimo, se non un sequel/spin off particolarmente riuscito dell’ebraismo?), qui ci sono di mezzo un sacco di soldi e dei meccanismi di produzione molto sofisticati, e che anzi tutto dipende dalle capacità produttive e distributive di Marvel e Disney – d’altra parte, se il mito è stato fin qui orfano del ricco filone dei mutanti è solo per banali questioni di licenze. Eppure, da provinciale snob mi verrebbe da ricordare che il mito e soprattutto il rito sono anche esibizione di potere, potenti quanto inarrestabili macchine di crowdfunding parrocchiale, nonché sistemi di generazione e mantenimento di precise strutture e gerarchie sociali.

Ad esempio: sapete quanto è costato portare la statua dell’Addolorata in processione a Taranto, quest’anno? 111mila euro. Perché si è disposti a pagare così tanto per una cosa del genere? E poi, indossare un cappuccio e portare una croce in giro per la città non è un modo come un altro per apparire celandosi, dunque per essere riconosciuti e riconoscibili all’interno della propria comunità? Il che non impedisce, a noi che osserviamo i pellegrini incappucciati seguire la Via Crucis fino a notte fonda, di provare un po’ della loro pena e della loro sofferenza.

E qui, forse, ci viene in aiuto proprio la posizione di mezzo del provinciale di Fellini; quella fede sempre un po’ incredula che prescinde dalla fede religiosa in senso stretto e che però non limita la possibilità di comprendere a fondo cosa significhi rubare il fuoco agli dei, una mela da un giardino particolarmente rigoglioso o delle gemme colorate dal guanto di un eco-terrorista alieno, mentre si è perfettamente consapevoli che tutto questo può essere sporcato da qualsiasi vizio umano senza che risulti comunque meno importante e credibile per ciascuno di noi.

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Se è vero che lo spoiler è parte integrante dei dispositivi del rito globale, è vero pure che la tentazione dell’autospoiler è una sottocategoria di questi dispositivi. Per due giorni, prima di andare a vedere Endgame, sono stato tentato di leggere i commenti sotto le recensioni spoiler free che comparivano come inserzioni nella mia app Facebook. Ho resistito, ho segnalato i post con un “Ti prego, non voglio vederli” e evitato accuratamente profili di persone che stimo e che avevano già visto Endgame. C’è però anche lo spoiler casuale, quello in cui incappi mentre stai cercando, con tutte le cautele possibili, delle semplici informazioni sul film che vuoi andare a vedere.

Ed ecco quello che è capitato a me. Sarò pure un odioso provinciale snob e fissato, ma ho notato subito che gli orari delle proiezioni non combaciavano perfettamente con la durata di Endgame: 17.30 e 20.30 per un film da tre ore e un minuto. Vuoi vedere che mi tagliano le scene dopo i titoli di coda? Così ho scritto a una persona che lavora al cinema.
“Ehi, me li fai vedere i titoli di coda, vero?”, ho chiesto, accompagnando la domanda con un’emoticon scema.
“Non c’è niente alla fine, Marco”, è stata la risposta di questa persona. Spoiler casuale o meno, ho pensato che fosse la battuta definitiva, vagamente metafisica benché involontaria, sulla fine di questi dieci anni di Marvel Cinematic Universe.

(Minimaetmoralia.it, 30 aprile 2019)

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