Un gruppo di giovani studenti si prepara per il ballo di fine anno. “Ehi gente, ce ne serve un altro” fa notare uno dei fustacchioni della comitiva. Indica un ragazzetto in disparte, l’aria timida e sconsolata, alle cui spalle è proiettata l’ombra di un ragno: “Che ne dite di Peter Parker?” “Stai scherzando?” risponde un altro, “Quel secchione non distinguerebbe un valzer da un cha-cha-cha!” È il 1962 e queste sono le battute iniziali della primissima storia di Spider-Man, pubblicata sul numero 15 di Amazing Fantasy, testata sci-fi che avrebbe chiuso con quell’ultimo albo uscito ad agosto. Dopo qualche tentennamento, Stan Lee si era deciso a sfruttare proprio quell’ultima occasione per introdurre un supereroe in costume che suonasse “completamente diverso” da quanto fatto fino ad allora: adolescente, con molti problemi, particolarmente venale, senza dimenticare il fatto che a conferirgli i superpoteri sarebbe stato un ragno, non esattamente il tipo d’animale più amato nell’universo. Come sappiamo, quell’esordio dal tono apparentemente scanzonato si chiudeva in tragedia – l’omicidio di zio Ben ad opera del ladruncolo che Peter Parker si era rifiutato di fermare quando ne aveva avuto la possibilità. “Così, una magra, silenziosa figura si perde nella notte” chiudeva nell’ultima vignetta la didascalia di Stan Lee, lo Spider-Man di Steve Ditko mostrato di spalle, a capo chino, dopo la cattura del criminale, “conscia infine che da grandi poteri derivano grandi responsabilità!” Grazie all’apparizione dell’Uomo Ragno le vendite dell’ultimo numero di Amazing Fantasy schizzarono alle stelle, e così nel marzo del 1963 l’Arrampicamuri tornò con una testata tutta sua, The Amazing Spider-Man.
Oltre cinquant’anni dopo gli albi, le riscritture e i film sull’Arrampicamuri si sono susseguiti a un ritmo incessante. La musica pure è letteralmente cambiata, passando dal valzer e dal cha-cha-cha dello Spider-Man di Amazing Fantasy alla trap, al nu soul e all’elettronica della colonna sonora di Spider-Man – Un nuovo universo, film d’animazione Columbia-Sony-Marvel uscito a Natale 2018. Un’opera che di amazing ha pressoché tutto.
La storia di Un nuovo universo (Into the Spider-verse in originale) prende le mosse da diverse serie alternative del fumetto: protagonista è l’adolescente Miles Morales (ideato da Brian Bendis e disegnato dall’illustratrice e animatrice italiana Sara Pichelli), figlio di un poliziotto afroamericano e di un’infermiera portoricana. Anche in questo caso ci sono una serie di traumi familiari “da soap opera” – definizione di Stan Lee – e soprattutto c’è un ragno che punge e che è “segnato dal destino per essere un protagonista del dramma che chiamiamo vita”, per dirla ancora con la solita prosa roboante del Sorridente. La struttura del film, se guardiamo oltre la moltiplicazione degli Spider-Man in arrivo da altri universi per fermare il folle piano di Kingpin, è piuttosto classica: iniziazione/acquisizione dei poteri, perdita temporanea degli stessi, raggiungimento della piena consapevolezza, battaglia finale (molto psichedelica).
Questa impostazione tradizionale è la base per liberare completamente l’impatto visivo dell’opera, la sua ricchezza espressiva, tanto che l’etichetta di film d’animazione finisce col ridurne di parecchio la portata. In ogni fotogramma di Un nuovo universo conflagrano diversi stili e tecniche d’animazione: dallo stop motion al 3D al fumetto alla serigrafia al videogame a chissà cos’altro. Se tra i nomi nei titoli di coda non ci fossero quelli di Christoper Miller e Phil Lord (nelle vesti rispettivamente di produttore e sceneggiatore) oltre che quelli di 142 animatori, sarebbe francamente incredibile pensare che una cosa del genere sia stata realizzata davvero: una mutazione continua, inarrestabile, che ci mostra Miles Morales muoversi a scatti impercettibili – ecco lo stop motion –, svolazzare del tutto fluidamente come in un open world per una console del futuro e sfarfallare nel disturbo del 3D senza occhialini – tutto nella stessa inquadratura. La compresenza di forme così diverse, la capacità di conciliare gli opposti – aggiungiamoci il noir, l’animazione giapponese e quella classica della Warner Bros – induce un piacere che va oltre quello che proviamo, con spirito un po’ provocatorio, di fronte all’ibridarsi di estetiche quanto mai lontane su certe pagine social 依永ニ oppure giocando con la realtà aumentata dei filtri di Instagram o Snapchat.
È comunque difficile che le parole possano definire, senza sfarinarsi, lo spettacolo a cui assistiamo per le quasi due ore di Un nuovo universo (molto più alla portata sarebbe descrivere l’odore di popcorn e il tepore della sala in cui ho visto due volte il film, sempre attorniato da un’infinità di adulti e ragazzini). Si può comunque fare un tentativo parlando dei corpi che vediamo sullo schermo, se il corpo è la possibilità di cristallizzazione di una forma altrimenti instabile – almeno finché lo osserviamo sotto il vetrino/telescopio degli spettatori più attenti.
Il Peter Parker originale – si fa per dire: nel film è nato nel 1991 – è muscoloso ma asciutto, oscilla con eleganza tra i grattacieli di New York ed è capace di incredibile espressività sotto la maschera (semmai potrebbe scandalizzare, nel caso di alcuni lettori di lunga data del Ragnetto, il fatto che sia biondo e tremendamente somigliante a uno youtuber); il Peter B. Parker che fa da mentore a Miles è invece sovrappeso, picchia e fluttua con mestiere più che con grazia, ma il suo volto – quasi sempre scoperto – racconta quanto quello di qualsiasi attore in carne e ossa; ancora, Miles Morales ha il corpo gracile e deforme di un adolescente in piena pubertà, e insieme a Spider-Woman sembra uscito da uno di quei cartoni contemporanei che diamo in pasto su tablet ai nostri figli per placarne le intemperanze pre-nanna; Kingpin è enorme, le spalle squadrate che superano di mezzo metro l’altezza del collo, e come Spiderman-Noir è la versione esagerata fino al parossismo di un detective comic degli anni ’30; infine, Spider-Ham cambia continuamente proporzioni e stende i nemici col tipico martello gigantesco (ma si può tenere in tasca) dei Looney Tunes, mentre Peni Parker, accompagnata dal fedele SP//dr, si muove per scatti emotivi in puro stile animēshon.
Ora, se avete visto Un nuovo universo vi sarete accorti di quanto poco questi miei tentativi ecfrastici gli rendano giustizia: perché il punto è la velocità pazzesca con cui le forme e gli stili cambiano e si mescolano sullo schermo, ed è quella velocità che rende il senso di coerenza e armonia. Oltre alla persistente meraviglia per la visione non c’è alcun attrito: scena dopo scena, è sempre più naturale ed esaltante trovarci in tre o quattro film diversi per volta. Allo stesso modo (e allo stesso ritmo) mutano i registri: un attimo prima Un nuovo universo è un fumettone per bambini, quello dopo un capolavoro di fan service, quello dopo ancora intrattenimento piuttosto raffinato per adulti. Tutto questo tenendo sempre in gran conto l’intelligenza del pubblico, che può fermarsi a un primo livello di lettura o provare a cogliere citazioni, rimandi interni, suggestioni da altre pellicole (non solo a tema supereroi).
La moltiplicazione formale, dunque la conciliazione di opposti, è ovviamente uno specchio del tema portante del film: quello del multiverso, delle realtà parallele, del racconto mitico. Anche l’umorismo a base di quarte pareti sfondate è relativo, quando le pareti si moltiplicano all’infinito, e d’altra parte la coesistenza di versioni contradditorie di una stessa storia fa di quella storia una leggenda: di questo vivono tanto i fumetti quanto i miti classici, sostenuti allo stesso modo da reboot, spin off, sequel, calchi e riadattamenti a seconda delle epoche e delle necessità di chi li riceve e rielabora. Qui tuttavia c’è dell’altro, suggerito forse proprio dalla colonna sonora – in questo caso quella originale firmata da Daniel Pemberton, che suona epica, rocambolesca, comica e tragica ma sempre a partire dal glitch, dal disturbo, dall’interferenza.
Il glitch fa capolino già prima dell’inizio vero e proprio di Un nuovo universo, a partire dall’apparizione della Torch Lady della Columbia, che vediamo cambiare forma in un ronzio cacofonico – ora è la tipica rappresentazione degli Stati Uniti, ora è una donna-cowboy, ora altre icone femminili cancellate dal disturbo cromatico insieme al nome della casa di produzione. A quel punto l’interferenza diventa squisitamente sonora: l’introduzione del tema principale di Pemberton parte dal rumore per evocare lo stesso senso di epicità che di solito restituiscono gli archi. Così viene presentato lo Spider-Man originale, e via di seguito, cambiando tono, Miles Morales e tutti gli altri personaggi, fino ai “ruggiti” delle scene più da thriller con gli inseguimenti tra Miles e il terrificante Prowler. Sostenuto a livello sonoro dalla costante suggestione che tutto sia instabile e pronto a scomparire sotto i nostri occhi, nella controparte visiva il glitch continua a fare da interruttore per il passaggio da una tecnica d’animazione all’altra, da una dimensione all’altra, da una modalità di rappresentazione all’altra, trasformando i semafori di New York in simil-opere di Banksy e – almeno nei desideri di Kingpin – i morti in vivi. Così fino alla scena post credit, che va ben oltre il cliffhangerone per il prossimo film ed è molto più di un comico ammiccamento alla cultura digitale: quegli ultimissimi minuti aggiungono qualcosa all’idea filosofica dei viaggi dimensionali, includendo negli universi paralleli anche le rappresentazioni della realtà gemmate dall’universo fumettistico, dai cartoon e dal merchandising – un cortocircuito totale, con venature persino politiche, per cui la diffusione a macchia d’olio di un franchise finisce con l’essere qualcosa di più che un subdolo stratagemma per vendere fumetti e pupazzi ai bambini.
Lo stacco tra Un nuovo universo e il resto dei film d’animazione – ma forse anche rispetto a molto del cinema contemporaneo – è impressionante: non vorrei esagerare, ma ho l’impressione che mentre in tanti campi siamo alla disperata ricerca di un canone più o meno stabile che aiuti a guardare al futuro, col grimaldello del glitch questo Spider-Man apra davvero a “qualcosa di completamente diverso”, com’era nei sogni dello Stan Lee che lanciò l’Arrampicamuri sull’ultimo numero di Amazing Fantasy. E lo fa con la profondità leggera tipica del mito quando è consapevole di appartenere a tutti, generazione dopo generazione: oltre i drammi, le insicurezze e i sensi di colpa, oltre il peso di dover tutto a uno schifosissimo ragno, quello che amiamo di Spider-Man è la poesia, la grazia con cui volteggia libero sui tetti di New York fino a contemplare in solitudine, dall’alto di un grattacielo, la città più bella del mondo, l’unico posto sulla faccia del pianeta in cui l’adolescente Peter Parker (o Miles Morales) vorrebbe vivere. “E così è nata una leggenda” si leggeva nelle ultime righe della origin story ragnesca del 1962, “un nome nuovo aggiunto all’elenco di coloro che rendono il reame della fantasia il più eccitante di tutti”. Ecco, è davvero difficile non eccitarsi di fronte a questo reame rinnovato da Un nuovo universo e non chiedersi cosa potrà mai esserci dopo un simile spettacolo.
(Minimaetmoralia.it, 8 gennaio 2019)