Ridere e piangere con Zerocalcare (e Bo Burnham)

Mentre guardavo Strappare lungo i bordi ho pensato al suo protagonista come a una sorta di Fantozzi moderno. Nella serie Netflix come nei fumetti, Zerocalcare si racconta come un inetto destinato a soccombere, sempre a disagio rispetto alla vita, anche se a differenza di Fantozzi non ha un lavoro d’ufficio né una famiglia, e soprattutto è fin troppo consapevole del nulla – aspettative versus realtà – in cui galleggia. Ma d’altronde come potrebbe presentarsi oggi un inetto, se non come un eterno ragazzo con un lavoro creativo e precario e un’autoconsapevolezza martellante, parossistica e sabotatrice?

Ad ogni modo il parallelo, che vi trovi d’accordo o meno, ha un’importanza relativa. Quello che mi preme sottolineare, qui, è piuttosto che Zerocalcare con Strappare lungo i bordi si conferma un artista di un’intelligenza rara, di cui andare sinceramente orgogliosi. E quanto è difficile essere fieri di qualcuno che non siamo noi, e che è nostro contemporaneo – anzi, magari pure nostro coetaneo? Quanto sarebbe più facile stare lì a sottolinearne gli errori, le sbavature, le incoerenze, per riportarlo al nostro livello? Strappare lungo i bordi, in fondo, parla proprio di questo: di quanto sia complicato uscire da sé stessi e accorgersi che gli altri esistono, che ogni tanto è bene fare il tifo anche per loro, e che il mondo là fuori, insomma, va avanti anche senza di noi.

Tutta la realtà, nella testa di Zerocalcare, viene scomposta e sminuzzata all’infinito, messa tra parentesi per fare spazio a un soliloquio fantastico che brilla in un frullato di invenzioni assurde e tantissime perle di cultura popolare, ma al tempo stesso isola il suo autore dagli altri. Nella serie, quando Zero si accorge degli altri – quando cioè realizza che c’è vita oltre l’Armadillo/coscienza – smette finalmente di doppiarli: gli altri, con la loro voce, stanno parlando proprio a lui, e gli stanno ricordando che starsene a rigirarsi i pensieri in testa può essere sì una legittima forma d’autodifesa, ma anche un modo per mettere una distanza incolmabile tra sé e la vita fino a restare anestetizzati persino di fronte al dolore.

Ora, non mi interessa che l’intelligenza e la raffinatezza di Zerocalcare vengano riconosciute a reti unificate (così come non mi è mai interessata quella gara di purezza tipica dell’underground in cui se hai successo sei un venduto), voglio solo essere felice per il percorso artistico di Rech e pensare che in un momento in cui è davvero difficile trovare qualcosa di buono là fuori – tesi cui non bisognerebbe mai dare troppo credito – un mio coetaneo sia riuscito in questa piccola impresa, raccontando l’alienazione e una certa tendenza all’autoreferenzialità che caratterizzano la nostra generazione.

Per cui grazie Zerocalcare, e grazie Bo Burnham.

Cosa c’entra adesso Bo Burnham, che peraltro ha qualche anno in meno di Zerocalcare (il quale, racconta proprio in Strappare lungo i bordi, avrebbe pure qualche problema con “i nati nell’89”, figuriamoci con Burnham che è del 1990)? Semplice: Bo Burnham ha realizzato qualcosa di simile con Inside, altro prodotto Netflix che come Strappare lungo i bordi ti fa ridere un sacco per poi prenderti a pugni (e di cui forse, a parte un certo hype a inizio 2021, in Italia pochi si sono accorti).

Ricapitolando: Bo Burnham è un giovanissimo ̶y̶o̶u̶t̶u̶b̶e̶r̶  attore, regista, cantante e musicista americano, anche piuttosto affermato. Nei suoi spettacoli, per la verità un mix tra concerto, musical e stand up, mette alla berlina le contraddizioni della vita occidentale e soprattutto la sua rappresentazione mediatica. Soprattutto, utilizzando la critica al discorso pubblico demenziale cui tutti noi contribuiamo ogni giorno, Burnham racconta la propria solitudine, la propria inadeguatezza e l’incapacità di pensarsi fuori dal frame narcisistico del successo a tutti i costi. Apprezzato da critica e pubblico, di punto in bianco il giovanissimo Bo sceglie tuttavia di sparire – problemi di depressione, crisi di panico o non so cos’altro: zero spettacoli per cinque anni.

Quando nel 2020 si decide a tornare finalmente sul palco, ecco la pandemia, teatri chiusi in tutto il mondo e una carriera più che promettente di nuovo ferma al palo. Ma Burnham non si perde d’animo e progetta uno spettacolo, Inside per l’appunto, tutto girato in casa. È un musical anche questo, in cui Bo canta, balla, coreografa, suona, straparla – tutto meravigliosamente da solo – se la prende con tutti e soprattutto con sé stesso (e con Jeff Bezos). Una follia stroboscopica in cui un appena trentenne Burnham si mette a nudo per svelare la cretineria del nostro racconto quotidiano sui social, delle scorciatoie mentali che prendiamo quando vogliamo confrontarci con gli altri dimenticandoci di riconoscergli un’autentica soggettività – ossia un cuore, un cervello e una potenziale irriducibilità di fronte al tentativo di racchiuderli nelle nostre categorie mentali.

In Inside, Bo Burnham fa quello che abbiamo visto spesso fare a Zerocalcare, ossia offrirsi sinceramente al pubblico mettendo in scena la propria gabbia e la difficoltà di uscirne, ma fermandosi un attimo prima rispetto a Zero. Se nel finale di Strappare lungo i bordi Zerocalcare riesce finalmente a uscire da sé per attraversare il dolore e vivere con gli altri, in quello di Inside Burnham vede l’uscita ma preferisce limitarsi a indicarcela restandosene tragicamente da solo, chiuso in casa come tutti noi al tempo della pandemia, per continuare a raccontare una chiusura, un lockdown ben più profondo.

In comune, Zerocalcare e Bo Burnham non hanno solo il fatto di appartenere a una delle generazioni insieme più istruite, talentuose e sfigate (e per questo un po’ vittimiste, a volte) di sempre, o quello di far ridere e piangere insieme senza inciampare nelle trappole retoriche e polarizzanti del discorso pubblico mainstream, ma un talento puro e fuori scala, un’intensa personalità autoriale che quando emerge va salutata con fervore, senza dissimulazioni o esitazioni di sorta. Grazie.

(Minimaetmoralia.it, 18 novembre 2021)

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