Al risveglio Teresa propose di lasciare in anticipo l’alloggio per proseguire subito verso la costa. Mi sembrò una buona idea, così ci vestimmo e ci spostammo in cortile per una breve colazione. Era il primo mattino d’ottobre, c’era una luce splendida e un odore di terra umida appena riscaldata dal sole. Per qualche minuto restammo in silenzio a osservare la distesa d’ulivi, i muretti a secco e i trulli accoccolati come un piccolo villaggio d’elfi nel cuore della valle.
L’alloggio era una casetta indipendente all’interno di una grande villa di campagna. Più su c’era l’abitazione dei proprietari, due sessantenni che vivevano tutto l’anno in queste contrade attorno a Locorotondo. Consegnate le chiavi, ci proposero di entrare per un caffè. Erano le undici, temevamo di non fare in tempo a visitare la mostra su Artemisia e i caravaggeschi a Conversano, che chiudeva quel giorno. Accettammo l’invito.
Il marito portava la stessa salopette sporca di grasso del pomeriggio prima. Al nostro arrivo lo avevamo visto armeggiare con degli attrezzi nel garage di lato alla casetta. Aveva le dita di entrambe le mani spappolate e ricucite all’altezza delle falangi. Fu la moglie, senza che glielo avessimo chiesto, a spiegarci il motivo di tutti quei lavori. Si trattava di rendere abitabile – dunque affittabile – ogni angolo della villa, per incrementare l’offerta per i turisti. A loro bastava quello che avevano, lo facevano per il figlio ingegnere emigrato in Spagna. “Magari si convince a tornare.” La signora aveva un’aria più simpatica e divertita che afflitta, ma mentre finiva il caffè sembrò commuoversi: “Ultimamente si è fatto più possibilista. Tanti suoi amici vengono in vacanza qui e gli mandano le foto. E poi ci sono tanti concerti.” Il marito tenne a specificare che la movida notturna non li disturbava.
Mentre chiacchieravamo due gatti spelacchiati entravano e uscivano dalla casa, inseguendosi per i corridoi e il giardino. Di tanto in tanto la signora si alzava per tentare di acciuffarli. Alla fine ci invitò a seguirla in veranda, dove si era infilato il gatto più grosso. Lì, attraverso i finestroni incassati nel muro di legno e pietra viva, mi fermai a osservare ancora più da vicino il paesaggio di pura luce della selva.
“Anch’io sono figlio unico” dissi, “e mi sa proprio che con suo figlio siamo coetanei. Anche se io non sono mai andato via da qui.” Del resto era vero che tutta o quasi la gente che conoscevo in giro per l’Italia era passata dalla Puglia, negli ultimi quindici anni. “Tanto vale starsene ad aspettare che siano gli altri a venire a trovarti.” Anche Teresa tentò di rincuorare la signora, sostenendo che in Valle d’Itria erano molto ben organizzati rispetto ai flussi turistici. “Fossi in vostro figlio ci penserei seriamente, a tornare” disse, ma nelle sue parole c’era anche un po’ di sana invidia di classe. In effetti, da quelle parti era sufficiente una piccola abitazione da trasformare in bed and breakfast per campare decentemente di rendita.
Prima di andare via la coppia ci chiese di lasciare una recensione positiva su Booking. “Lo faremo per vostro figlio” scherzò Teresa. C’era da scommetterci che stava ripensando all’infinita quantità di biscotti e marmellate che avevamo trovato nella piccola e graziosa cucina dell’alloggio. Salutammo moglie e marito con baci e abbracci. Quell’intimità inaspettata ci diede una strana energia, una sorta di attestato circa la nostra capacità di stare al mondo.
Ogni foto rinforza l’aura
Dalla statale continuavamo a osservare il paesaggio della selva, mentre dall’altra parte, oltre Fasano, l’azzurro dell’Adriatico sfumava nel blu cobalto del cielo. Eravamo in prossimità di Borgo Egnazia, il villaggio tipico pugliese creato dal nulla nel 2010. “Sembra un paese” recitava una campagna pubblicitaria che mi ero appuntato all’epoca, “invece è un resort. Sembra antico, invece è stato costruito da zero. Sembra austero, invece è lusso puro”.
Qualche estate prima nel borgo c’era stata Madonna. L’avevo immaginata a girare a bordo di una golf car tra uliveti, muretti a secco e piscine, finché non era stata lei a postare un video in cui ballava la pizzica nella piazza del villaggio inventato. Nel video si contorceva con autentica, appassionata dolcezza, mentre attorno a lei dei figuranti vestiti con abiti tipici della Valle d’Itria suonavano e cantavano un repertorio salentino. Uno strano sincretismo che raccontava bene cos’era la Puglia con cui venivano in contatto le star internazionali.
Prima di lasciare la statale chiamammo Pep, un nostro amico che lavorava come travel designer per un grosso tour operator con base a Polignano e a Boston. Pur orgoglioso per una regione che aveva fatto di tutto per trovare la sua identità oltre dialetti e paesaggi quanto mai diversi tra loro, Pep conservava uno sguardo critico sul turismo pugliese, tanto su quello di massa che su quello d’élite. E così ci raccontava spesso dello spopolamento e della gentrificazione dei centri storici della Valle d’Itria, dei servizi ancora inefficienti e di quelli, come la rete fognaria di Monopoli, portati al collasso dal crescente numero di visitatori.
Chiedemmo a Pep se fosse in zona, e se c’era la possibilità di incontrarci. Sì, era a pranzo Polignano con dei clienti australiani, ma a breve si sarebbe infilato in auto per accompagnarli a Otranto. In genere, dei suoi ospiti Pep diceva che erano persone raffinate, molto gentili, da 500 euro a mancia per i colleghi autisti del tour operator.
Prima di riattaccare accennammo alla nostra puntatina ad Alberobello della sera prima. “Ma no, ve l’ho già detto, dovete andarci in piena estate, se volete il kitsch.” Pep sapeva che a me e Teresa piaceva andare in giro a indagare il confine tra autenticità e plastificazione turistica. Pensavamo fosse l’unico sguardo autentico – o quantomeno l’unico possibile – su una regione come la Puglia di quegli anni.
Quello che vedono gli altri
Quando chiudemmo la telefonata eravamo all’ingresso di Conversano. Con Teresa riparlammo della serata passata nella città dei trulli. Se c’era gente in giro, era soprattutto per la festa dei Santi Medici. Nella piazza principale le luminarie si accendevano e spegnevano in sincrono con la musica della band di Mietta. Sul palco, tra una canzone e l’altra, la cantante provava a far partire una diretta Instagram, non ci riusciva, scherzava sul fatto di essere imbranata, riprendeva a cantare, riprovava col telefono, e poi daccapo. Il siparietto aveva tutta l’aria di ripetersi uguale ogni sera, a ogni concerto, su ogni palco di provincia su cui si esibiva Mietta: era kitsch anche quello, ma da festa patronale, uguale ovunque in tutto il sud Italia.
Superata la piazza, il belvedere si apriva su un viale pieno di gelaterie, braciere e giostre. Più su c’erano i trulli illuminati da videomapping e fari puntati sui tetti a forma di cono. La maggior parte dei negozi di souvenir era chiusa, e tra i vicoletti si poteva passeggiare con calma. Per quanto banali e molto più spesso pretenziosi, i giochi di luce sulle facciate dei trulli creavano una singolare atmosfera a metà tra luna park e villaggio infestato. Dopo un’ora abbondante che ci giravamo intorno, avevamo iniziato a immaginare i trulli come strane creature che di lì a poco avrebbero smesso di tollerare oltre la presenza degli umani. Soprattutto il grande Trullo Sovrano, su cui venivano proiettati i girasoli di Van Gogh, sembrava un antico Transformer sul punto di sollevarsi e riassemblarsi in una gigantesca figura antropomorfica pronta a usare i pinnacoli come razzi da spararci addosso.
Aveva ragione Pep, insomma: disillusi da tempo rispetto alla possibilità di incontrare l’autenticità del borgo, eravamo delusi anche dall’Alberobello solitamente apparecchiata per giapponesi, tedeschi e americani, e che quella sera era semideserta. Al contrario, alla lunga ci aveva soddisfatto la trasfigurazione ludica dei trulli: era oggettivamente difficile resistere alla tentazione di fermarsi a fotografare ogni gioco di luce. Come le altre persone in giro, anche io e Teresa assumevamo la classica posa col telefono tenuto con entrambe le mani in avanti o poco sopra la testa nella ricerca dell’inquadratura giusta, che tenesse insieme i nostri volti e lo sfondo di casette illuminate da laser e fari. Era una vera e propria sfida, che si rinnovava di trullo in trullo: pensai che ogni foto presa col telefono, selfie o meno, porta anche chi la scatta a mettersi in posa. Il ritorno nella piazza principale aveva confermato quest’idea.
Adesso le luminarie si accendevano e spegnevano seguendo la musica in playback dell’impianto sul palco vuoto. Incantati dalla solenne e melensa Perfect Symphony del duo Sheeran /Bocelli, gli alberobellesi puntavano i loro telefoni in alto verso le luci, oppure verso sé stessi e gli amici, con le luminarie alle spalle. Erano decine e decine, capannelli di muti karateka che in quel momento erano stranieri nella loro stessa città, dunque felici. Per me e Teresa facevano parte dell’inquadratura e dello spettacolo, della messa in scena generale. Avremmo potuto fotografarli a nostra volta, ma non avremmo potuto essere loro, provare quello che loro stavano provando nel luogo che abitavano ogni giorno. E che adesso era un altro posto, da immortalare e dimenticare un istante dopo come capita a qualsiasi turista in un posto sconosciuto.
Una resa spirituale
“Fotografano il fotografare”, era questa l’espressione giusta. Veniva da Rumore bianco, un romanzo di Don DeLillo pubblicato nel 1985. Mi tornò in mente a Conversano, mentre visitavamo l’ultima parte della mostra su Artemisia, ospitata all’interno di una chiesa piena di gruppi organizzati. I visitatori, specie quelli in posa da instagrammer, occupavano tutto lo spazio davanti alle tele, per cui era impossibile osservarle di fronte. Con Teresa ci sistemavamo di lato, oppure molto indietro, e dalla nostra prospettiva la curiosa sinfonia di corpi davanti ai quadri finiva con lo specchiare quella di contadini, satiri e donne danzanti all’interno.
L’allestimento non era granché: i faretti, quasi sempre puntati direttamente sulle tele, creavano fastidiosi riflessi dove non doveva esserci nient’altro che ombra, e ombra dove il soggetto doveva essere ben visibile. Così, la Madonna della Fuga in Egitto di Guido Reni era doppiamente illuminata: dalle intenzioni del pittore e dal faretto che ne bruciava completamente il volto come in una fotografia sovraesposta. Al contrario, Giuseppe e il Bambinello si perdeva nella penombra della sala, prima ancora che nell’oscurità della tela.
Di Artemisia non trovammo che tre o quattro opere in tutto, sparse tra quelle ben più numerose dei vari Stanzione, Reni, de Ribera, Finoglio e compagnia. Eravamo venuti a Conversano per incrociare lo sguardo di un’artista donna all’interno di un panorama culturale dominato da uomini – una donna vittima di stupro da parte del suo maestro, peraltro. In questo senso, la presenza di un’opera come Susanna e i vecchioni del Maestro di Fontanarosa mi parve decisamente esplicativa.
Alla fine lasciammo la chiesa con gli occhi pieni di teste mozzate. In quanti modi era stato decapitato il povero Giovanni Battista? La versione più disturbante era quella di Massimo Stanzione. Sulle prime il suo barocco fotografico mi aveva sedotto, ma dopo cinque o sei tele aveva finito col darmi il voltastomaco. Il realismo di Stanzione era così potente da annullare ogni filtro artistico: alla lunga ti sembrava di stare lì, nel quadro, partecipe o addirittura complice di un’epoca oscura. Immaginai che Stanzione non intendesse trasfigurare un bel niente, e che per lui realtà e rappresentazione dovessero coincidere del tutto: se proprio poteva esserci una promessa d’accesso al sublime, era subordinata alla capacità dello sguardo di restare all’interno della cornice, di sostenere la visione delle tenebre e dei corpi tagliati, danneggiati, offesi.
All’uscita dalla chiesa il cielo si era fatto grigio, e un vento umido rendeva l’aria piuttosto appiccicosa. La città era improvvisamente deserta. Non ci volle molto per capire dov’erano finiti i gruppi organizzati che avevamo incontrato prima della mostra: nelle trattorie e nei ristoranti, tutti al completo. Girovagammo per quasi un’ora nel centro medievale senza scambiare una parola, come se l’assenza di posti in cui mangiare dipendesse da qualcosa di spiacevole che aveva detto o fatto l’altro. Alla fine optammo per un bar di lato al castello. Disposti ad accontentarci di un misero pezzo di focaccia prima di spostarci a Polignano, fummo felici di scoprire che il locale faceva anche primi piatti. Ci accomodammo in una saletta spoglia, al tavolo accanto a quello di una coppia sulla cinquantina che avevamo incrociato alla mostra. Erano stati tra i pochi a non aver scattato mezza fotografia davanti ai quadri; all’uscita avevamo sentito il paffuto marito lamentarsi dei troppi libri che avevano in casa, motivo per cui non avrebbe preso neppure il catalogo. La moglie, mingherlina, con un foulard giallo stretto al collo come un cappio, aveva ascoltato in silenzio, disinteressata. Al bar i ruoli si erano invertiti: a lamentarsi era la donna, mentre il marito taceva impaziente e affamato. Pur avendo ordinato prima di noi, la coppia aspettava ancora di essere servita; io e Teresa ci apprestavamo ad assaggiare delle ottime trofie con pesto alle cime di rapa.
Quelli che verranno in futuro
Non mettevo piede a Polignano da una decina d’anni, da molto prima, cioè, che la città diventasse ancora più celebre in tutto il mondo per il centro storico costruito a strapiombo sul mare o per il RedBull Cliff Diving, la spettacolare gara di tuffi che si tiene a Lama Monachile dal 2009. Da molto prima, soprattutto, che Instagram diventasse un potente strumento di promozione turistica. Secondo Pep, una città che non disponeva di un belvedere o di una spiaggia decente per fare da sfondo a un selfie poteva anche fare a meno di proporsi sul mercato turistico globale.
Da questo punto di vista, Lama Monachile era il massimo. La vista dall’alto del ponte di pietra costruito dai Borboni, le due coste di terra – sulla sinistra la lunga scogliera su cui si sistemava il pubblico del RedBull Cliff, sulla destra lo strapiombo con le case del centro storico – e poi la linguetta di spiaggia nel mezzo, un tempo il letto di un fiume che sfociava nell’Adriatico… Ha senso descrivere un paesaggio che è mozzafiato per definizione, un paesaggio rappresentato e replicato un’infinità di volte in digitale?
Come per il Colosseo o la Torre Eiffel, il fatto è che tutti hanno visto Lama Monachile: io ho continuato a vederla negli anni in cui non ero stato a Polignano e anche Teresa, che non ci tornava da quando era bambina. Adesso ce ne stavamo sul ponte a goderci il contrasto tra il calore del sole e il vento di pieno autunno. Intorno a noi, i visitatori fotografavano la caletta dalla stessa angolazione che l’aveva resa famosa ovunque, condividendo all’istante quello scatto su Instagram. “Fotografano il fotografare”: di nuovo mi tornò in mente la frase del romanzo di DeLillo, ma stavolta insieme a tutto il breve capitolo in cui veniva pronunciata.
Più o meno a metà del libro, Jack Gladney, il professore di studi hitleriani protagonista di Rumore Bianco, raggiungeva col collega Murray un’attrazione turistica chiamata “La stalla più fotografata d’America”. Nel corso del tragitto incontravano una serie di cartelli stradali che preannunciavano l’imminente arrivo alla stalla. Una volta in zona, si imbattevano in una scena del tutto simile a quella che avevamo trovato io e Teresa nel parcheggio di Polignano: una distesa di auto e pullman da cui scendevano frotte di visitatori. Dopo una breve camminata, Gladney e Murray si accostavano a “un lieve sopralzo, creato apposta per guardare e fotografare”, dove i due si mettevano a osservare i numerosi fotografi amatoriali venuti a immortalare la stalla. Quando se ne andava un gruppo, un altro arrivava subito a sostituirlo.
La scena proseguiva tra un’epifania e l’altra di Murray, una serie di battute che sarebbero state bene anche isolate, in un compendio di aforismi sullo sguardo del turista contemporaneo: “Noi non siamo qui per cogliere un’immagine, ma per perpetuarla. Ogni foto rinforza l’aura […] Trovarsi qui è una sorta di resa spirituale. Vediamo solamente quello che vedono gli altri. Le migliaia di persone che sono state qui in passato, quelle che verranno in futuro. Abbiamo acconsentito a partecipare di una percezione collettiva. Ciò dà letteralmente colore alla nostra visione. Un’esperienza religiosa, in un certo senso, come ogni forma di turismo.” E poi: “Fotografano il fotografare”.
Quando glielo chiesi, Teresa rispose che ricordava bene la scena. Ci eravamo spostati in un bar poco distante da Lama Monachile, per ripararci dal vento e mangiare un gelato. “È il gelato più buono che io abbia mai mangiato” sorrise Teresa, ma le feci notare che lo diceva per ogni gelato mangiato in una città di mare. “A proposito di quella scena” mi anticipò, “lo so cosa stai pensando, ma non è la spiaggia più fotografata di Puglia: è la foto più fotografata di Puglia.” Aveva ragione. Per quel che ricordavo, in Rumore bianco la stalla non veniva neppure descritta, perché nessuno, diceva Murray, la vedeva o la visitava davvero. “Dobbiamo scendere” dissi. “Dobbiamo entrare nella foto”.
Una percezione collettiva
Sotto il ponte si apriva un paesaggio da scavo archeologico, con piccoli terrazzamenti e cespugli di macchia mediterranea. Imboccammo un vicolo che portava dritto all’ingresso di un ristorante di pesce, tornammo indietro, scendemmo su un tratto in breccia e poi tra le siepi che facevano da corridoio verso la caletta. La breccia si trasformò in una distesa di grossi ciottoli bianchi, tra cui spuntavano delle spugne portate dal mare. Il vento era più forte, le onde molto più alte di quanto non sembrasse dall’alto.
Sulla sinistra, sotto la scogliera del RedBull Cliff, c’erano degli stranieri stesi a prendere il sole in costume. Altri stranieri, in particolare giapponesi, stavano impalati in posa davanti al mare per tentare di scattare una foto decente. Due ragazze mulatte avevano posizionato il telefono in equilibrio su uno zainetto, sui ciottoli, dopo aver programmato l’autoscatto: volevano immortalarsi in una di quelle foto con salto sorridente a braccia aperte e gambe raccolte leggermente all’indietro. Il vento però complicava le cose: ora inclinava o spostava lo zainetto, ora prendeva a ceffoni le ragazze, che si ostinavano divertite nel loro gioco di spalle al mare.
Nonostante il gran numero di persone, il vento, l’impeto delle onde e l’odore pungente di salsedine sovrastavano la presenza umana, lasciando percepire un presagio di silenzio assoluto, insieme antecedente e posteriore alla nostra apparizione sul pianeta. Sulla destra, sotto delle rocce più basse, avevano trovato riparo altri stranieri più timidi, forse europei. Se ne stavano immobili a scrutare il mare come antichi uomini rupestri. Supposi che si sentissero ingannati: erano venuti in Italia per fare il bagno nell’incantevole caletta stravista su Internet e quel giorno, proprio quel giorno, era impossibile entrare in acqua. Nel frattempo mi sembrò di aver perso Teresa: mi guardai intorno e la trovai poco dietro di me, a guardare il mare, ma ormai avevo realizzato di essere da solo, come sola era Teresa e soli erano tutti nella caletta, in quel momento, ovvero nella foto. Tornai verso la scogliera sulla sinistra.
C’era una grotta che prima non avevo notato, mimetizzata nella roccia grigia venata dal verde delle alghe. Il corridoio di pietra si inoltrava per qualche metro fino a sbucare dall’altra parte, in un’apertura perfettamente quadrata, dove riappariva il mare. Due ragazze in costume erano sedute all’ingresso, da questa parte, nell’acqua bassa che scorreva e stagnava per tutto il corridoio. Io e gli altri visitatori, soprattutto uomini, le osservavamo come fossero parte del paesaggio, come fossero state partorite direttamente dalla roccia o dall’acqua. La più alta delle due si alzò e mi passò davanti prima di sistemarsi al sole qualche metro più in là. Indossava uno di quei costumi interi che si aprono a strisce sui fianchi, lasciandoli completamente scoperti, per poi aderire perfettamente alla forma bipartita dell’inguine. L’altra ragazza era ancora seduta all’ingresso della grotta, le braccia portate indietro e le mani e i piedi ben piantati nell’acqua. Sembrava in attesa di capire se fosse il caso di avventurarsi all’interno, o se fosse più saggio attendere che fosse il mostro marino a infilarsi tra le pareti di roccia per venire a sbranarla.
Tornai da Teresa. Non parlavamo né riuscivamo a lasciare la caletta, presi dal tipico dubbio che il luogo che stai visitando abbia ancora qualcosa di fondamentale da svelare. Ripensai alle visioni di Murray in Rumore bianco, ai quadri di Stanzione e alle luminarie nella piazza di Alberobello, ma mi sembrarono visioni sconnesse provenienti da una vita che non era più la mia.
Ripreso il ponte, ci infilammo nel centro storico. Seguivamo gli sciami di gruppi organizzati, cercando di indovinarne la nazionalità. I vicoletti si attorcigliavano uno sull’altro per poi sciogliersi e riportarci sul lungomare. All’improvviso la città tornava ad aprirsi sull’acqua, e come gli altri visitatori anche noi ci fermavano nelle piazzette e negli slarghi che si affacciavano sulle pareti di roccia per osservare il mare. Davanti a noi l’Adriatico si muoveva come un’unica grande massa gelatinosa, aggredendo le scogliere in basso. Al largo sembrava più calmo e indifferente, e cambiava colore – dal blu all’azzurro allo smeraldo e ancora al blu – in base alla profondità del fondale e agli umori del sole.
Dare colore alla visione
Seguendo il lungomare incontrammo un altro elemento tipico delle foto polignanesi su Instagram: lo Scoglio dell’Eremita (o Isola di San Paolo), un isolotto di roccia bianca a qualche centinaio di metri dalla terraferma con una croce di ferro piantata in cima. Per il resto, comunque, eravamo ormai fuori dalla parte strettamente turistica del centro storico: sul lato interno le ultime case di pietra lasciavano spazio a villette a schiera e abitazioni più moderne. Seguendo il mare verso sud il paesaggio si faceva più desolato: casette a un piano e garage abbandonati, apecar parcheggiati su grandi piazzali che dovevano restare deserti anche d’estate. La pietra veniva sostituita da cemento, ferro, plastica, anticorodal e altre tracce di un recente passato in cui Polignano non era ancora Polignano – o forse, al contrario, lo era davvero, la città di cui polignanesi avevano legittimamente disposto come più gli aggradava, all’occorrenza anche sfigurandola, perché fosse semplicemente funzionale, abitabile.
A un certo punto avvistammo l’edificio basso, bianco e regolare, che ospitava la Fondazione Pino Pascali, l’unico museo di arte contemporanea in Puglia. Alla reception ci accolse un ragazzo sui venticinque anni, barba e capelli lunghi e molto curati. Dopo un attimo di esitazione ci chiese, sorridendo, se conoscessimo già il museo, per poi lanciarsi in un lungo spiegone che fingemmo di ascoltare ricambiando il sorriso. Non ci restò che rimpiangere i verbosissimi pannelli pieni di refusi dei musei archeologici di provincia.
A dirla tutta i pannelli non mancavano neppure all’interno della Fondazione, anche se in questo caso leggerne o meno i testi cambiava poco, e non solo per la compiaciuta brevità che li caratterizzava: ad eccezione delle fotografie in bianco e nero del giovane Pino Pascali in giro per Napoli, Ischia, Capri e Roma o del suo bellissimo treno di latta, le opere che osservavamo sarebbero rimaste abbastanza indecifrabili, a prescindere da qualsiasi spiegazione o riferimento storico. Le cose si facevano ancora più complicate con i readymade nella sala principale, tanto quelli dello stesso Pascali – le robuste corde che cascavano dal soffitto e il dorso del dinosauro bianco, che nella mia mente richiamava la parte emersa dello Scoglio dell’Eremita – quanto quelli di un altro artista di cui avrei dimenticato presto il nome. Per la verità avrei dimenticato i nomi e i titoli della maggior parte degli artisti e delle opere presenti alla Fondazione. Erano quasi quarantotto ore che andavamo per mostre, e cominciavo a provare un senso di accumulazione che mi impediva di accogliere e registrare altre suggestioni. In fondo non erano esibizioni anche le scenografie luminose di Alberobello, la selva di Locorotondo, i centri storici di Conversano e Polignano, oltre che Lama Monachile? Non erano display, puro allestimento, anche i fondali di tutte le foto in cui eravamo entrati in quei giorni?
Il senso di accumulazione raggiunse il picco nel seminterrato della Fondazione. Con i suoi muri grigi e le sua penombra, l’intera area sembrava un incrocio tra i corridoi digitali dell’Animus di Assassin’s Creed e un bagno pubblico. In una grande sala col soffitto molto basso era in corso la proiezione di un filmato con alcuni lavori pubblicitari di Pino Pascali selezionati da Marco Giusti. Restammo lì per una ventina di minuti, seduti e ipnotizzati, più per riposarci che per curiosità. Riprendemmo il nostro giro verso la collezione con tutte le opere che avevano vinto il Premio Pascali negli anni. Mi colpì una foto dell’afgana Lida Abdul, premiata nel 2006: nello scatto c’era un cumulo di macerie – ciò che restava della casa dell’artista, venuta giù sotto i bombardamenti – appena ridipinto di bianco. Al centro dell’inquadratura stava in piedi la stessa Lida Abdul, vestita di nero, all’opera col pennello. La sua figura mi fece tornare in mente quella del boia, nera anche questa, che compariva nel finale di un reportage di Norman Lewis dallo Yemen. Teresa mi disse di dare un’occhiata alla didascalia, ma lì per lì non ci diedi peso.
Tornati di sopra, ci imbattemmo in una commistione piuttosto pittoresca di antico e contemporaneo. Per la mostra Mare Motus, inaugurata con l’ultima edizione del RedBull Cliff, la Fondazione aveva messo insieme – cioè: allestito nella stessa sala – l’istallazione Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg) con dei reperti provenienti dai musei archeologici di Brindisi e Lecce. I reperti erano nelle teche sulla destra: piatti, vasi, anfore e altra chincaglieria di origine greco-romana recuperata in mare. Di fronte, sulla sinistra, c’era Il nuotatore, una serie di monitor che rimandavano frammenti di un’unica scena: il nuoto di un uomo, seguito di lato da una telecamera immersa sul pelo dell’acqua. L’uomo passava di schermo in schermo, finché la scena non ripartiva daccapo. Su un monitor a parte il quadrante di un orologio segnava il tempo, tremando e squillando di tanto in tanto come una sveglia e squarciando il sottofondo di suoni liquidi che provenivano da chissà dove nella sala.
L’istallazione era stata realizzata dal collettivo Studio Azzurro nel 1984, dunque un anno prima dell’uscita di Rumore bianco. Un’altra èra tecnologica, come dimostravano tutte le difficoltà nel mettere insieme l’opera raccontate nel video del making of, in rotazione su un tablet nel corridoio adiacente alla sala. Conclusi che il dialogo tra Il nuotatore e gli oggetti dei musei di Brindisi e Lecce era tutto giocato, seppure involontariamente, sul piano dell’archeologia: classica quella dei reperti, tecnologica quella dell’istallazione.
Lasciai Teresa a guardare il making of e mi misi a gironzolare per il resto dell’edificio. I suoni dell’istallazione mi seguirono fin nella bianchissima sala conferenze, sui cui muri campeggiavano come trofei di caccia il muso e la coda di un capodoglio, anch’essi bianchi. Sulla parete di fronte c’era una lunga portafinestra che dava sul mare, in direzione dello Scoglio dell’Eremita. Ebbi la sensazione di poter guardare chiaramente il paesaggio come avevo fatto quella mattina con la selva intorno a Locorotondo, nella veranda dei nostri ospiti. La luce però era diversa, adesso: il sole tramontava e i vetri dovevano avere qualche filtro, perché il mondo fuori aveva delle strane gradazioni di blu e di arancio. A un certo punto, anche per via dei suoni liquidi che continuavano ad arrivare dalla sala di Mare Motus, mi sembrò di essere sul fondo al mare.
Quando Teresa venne a chiamarmi me ne stavo imbambolato davanti al finestrone, ormai una sorta di schermo cinematografico, a osservare il passaggio di una coppia di anziani. I due avanzavano sottobraccio, col tipico passo pacificato dei vecchi che si dirigono a messa, da sinistra verso destra, dunque verso la fine dello schermo e della Polignano turistica. Teresa seguì per un po’ la scena insieme a me, poi i suoni di Mare Motus si stopparono all’improvviso – immaginai il ragazzo della reception che incespicava tra i cavi dell’istallazione – e sul vetro del finestrone non restò che il nostro riflesso. Tutto sommato avevamo un’aria simpatica, per quanto stanca. Fuori, la coppia diventò un’informe sagoma grigia e lo Scoglio dell’Eremita tornò a inabissarsi nell’Adriatico, nella parte più in ombra del cielo al tramonto.
Un’esperienza religiosa
In auto, tornando verso Brindisi, nella nostra parte di Puglia decisamente meno turistica, dissi a Teresa che secondo me la sala conferenze della Fondazione e la foto di Lida Abdul erano state le cose più interessanti di tutto il museo, forse addirittura dell’intero viaggio. Esageravo: m’era preso il buonumore da stanchezza di fine gita, che una volta a casa si sarebbe trasformato in un sonno melanconico.
Esageravo e Teresa me lo fece notare, così come mi fece notare che nelle zone in cui era stata scattata la foto di Lida Abdul il colore del lutto non era il nero ma il bianco, cioè quello delle macerie appena riverniciate e del pennello – o almeno così diceva la didascalia nel seminterrato della Fondazione. A pensarci bene, il bianco era anche il colore dominante dei centri storici di tutti i posti che avevamo visitato in quei giorni.
“A-ha” disse Teresa, senza troppa convinzione.
Allora, anche per allontanare la stanchezza, le raccontai la parte finale del viaggio di Norman Lewis nello Yemen del 1937. Dopo diverse settimane passate tra le città di Aden e Lahej (all’epoca non ancora yemenite), Lewis provava a entrare nel Paese prima in sambuco e poi a bordo di un battello portoghese diretto a Hodeidah. Nonostante gli sforzi della diplomazia britannica, sulla nave lui e i suoi compagni europei venivano a sapere di essere persone non gradite al re. Il capitano portoghese dava quindi ordine di fare rotta per Gedda, in Arabia, e raggiungeva Lewis sul ponte. Il reporter stava osservando il lungomare di Hodeidah. Lo colpiva l’architettura “esuberante” dei piani più alti dei palazzi, quelli “più vicini al cielo”, che i ricchi yemeniti avevano fatto costruire ispirandosi agli edifici più lussuosi ammirati in Costa Azzurra. I piani inferiori invece restavano spogli, senza finestre, perché vicini alla terra e dunque destinati alla vista dei poveri. Sulla banchina intanto arrivava un furgone. Dal mezzo uscivano due uomini in divisa, che scaricavano per terra un terzo uomo con le mani legate dietro schiena. Il prigioniero veniva fatto inginocchiare, e a quel punto dal retro del veicolo veniva fuori anche il boia, attorno al quale si iniziava a radunare una certa folla. Il capitano portoghese, che conosceva bene lo Yemen, spiegava che prima di procedere all’esecuzione il boia avrebbe urlato una preghiera per il prigioniero e avrebbe preso a danzare, mentre la folla avrebbe intonato un canto tradizionale. Infine, quando il pubblico si fosse stancato, sarebbe arrivata la decapitazione. Lewis chiedeva di quale reato fosse colpevole il condannato. Potrebbe essere una spia, ma potrebbe anche non esserlo, rispondeva il capitano. L’importante era che l’esecuzione fosse perfettamente visibile dalla loro imbarcazione. Era stata programmata, con tanto di messinscena dell’autentico rituale tradizionale e dell’altrettanto autentica e quanto mai reale decapitazione, appositamente per lo stesso Lewis e i suoi compagni, perché fosse chiaro qual era il destino che toccava alle spie occidentali in quel Paese. A esecuzione avvenuta, dal lungomare arrivava il debole “Ah” della folla, come il “rumoreggiare di uno stadio in lontananza”, che poteva essere di gioia o di pena.
“Una cerimonia tutta per lui, praticamente” conclusi pensando ai figuranti pugliesi di Borgo Egnazia e alle mance da 500 euro per i colleghi autisti di Pep.
“Tanto valeva scattare una fotografia” sospirò Teresa in dormiveglia, lasciando andare la testa all’indietro sul sedile.
(Indiscreto.org, ottobre 2019)