Il trattamento Wes Anderson

Si può trovare insopportabile il cinema di Wes Anderson, la sua fotografia patinata, le sue simmetrie-gabbie per spettatori sempre meno abituati all’idea che un autore è un autore e come tale andrebbe preso. Certo, alcuni film di Anderson sono oggettivamente molto deboli, poco più che rimpatriate pubblicitarie tra attori amici e amici di amici. Tuttavia, se il regista texano non avesse insistito per anni sull’architettura formale dei suoi film, sul lavoro ossessivo con alcuni attori e su alcuni temi, non sarebbe arrivato a realizzare con estrema raffinatezza i quattro cortometraggi tratti dai racconti di Roald Dahl.

Intendiamoci: questa è una mia idea e potrei sbagliarmi, anche perché non ho ancora visto Asteroid City (e non lo vedrò per il momento*). Del resto anche i quattro corti disponibili su Netflix potrebbero risultare insopportabili, se già si non si digerisce il cinema di Anderson. Facile: sono il contrario del cosiddetto show don’t tell. Le quattro storie sono completamente dette, riportate dai personaggi. La messinscena è una messa in mora dell’azione, una parodia del cinema come movimento, l’esaltazione della sua filiazione dal teatro e dalla letteratura. Gli attori leggono le proprie parti e anche quelle in terza persona, cioè i testi di Roald Dahl, consapevoli che c’è un pubblico vivo che assiste allo spettacolo, un pubblico da ingaggiare direttamente con lo sguardo fisso in camera. A un secondo livello di lettura, i quattro corti risultano delle riflessioni di puro linguaggio sul rapporto tra parola scritta e parola orale, tra parola recitata e ascoltata, quattro saggi tripartiti tra cinema, teatro e letteratura.

Non si tratta però di operazioni particolarmente cervellotiche, né di speculazione intellettuale fine a sé stessa. Oggi è molto facile incappare in opere e performance teatrali che, pur di apparire innovative, sono davvero noiose o inutilmente complicate. Qui invece c’è un teatro classico, quasi d’avanspettacolo, incapsulato nel cinema, con soluzioni sceniche semplici, artigianali, anche in questo caso buffe o parodistiche (gli oggetti di scena passati dagli operatori dietro le quinte, oppure quelli più importanti – i ratti di The ratcatcher – che addirittura mancano).

E c’è sicuramente molto piacere, un piacere purissimo, nell’assistere alle prove di attori in assoluto stato di grazia – in particolare Benedict Cumberbatch, Ben Kingsley e Ralph Fiennes –, tanto che si potrebbe persino chiudere gli occhi e limitarsi ad ascoltare le loro voci: verrebbe meno la componente visiva, ma resterebbe quella di racconto ipnotico. Ora che ci penso, sarebbe come ascoltare un radiodramma (più che un audiolibro).

Veniamo quindi a un punto forse ancora più interessante: non so se tra le intenzioni di Anderson ci fosse anche quella di riabilitare Roald Dahl dopo le polemiche sui recenti tentativi di riscrittura di alcuni suoi testi, ma dai corti, ancor più che in Fantastic Mr. Fox (2009), emerge tutta la sapienza dell’autore britannico, la cura per ogni parola, ogni descrizione, ogni dialogo, oltre all’incredibile capacità di creare tensione con pochissime frasi (in particolare negli horror The ratchatcher e Poison). Emergono insomma il valore e la densità rarefatta e inafferrabile della parola letteraria, l’andamento imperturbabile qualsiasi cosa racconti e il tono assoluto e perentorio, mai riconducibile a dibattiti o questioni correnti. Tanto più che almeno due di questi corti, se non tutti, sono anche potenti racconti morali (The swan e The wonderful story of Henry Sugar), un genere ormai per niente frequentato in un mondo di facili indignazioni e moralismi digitali, gli stessi per cui si prende un autore morto e sepolto e lo si inchioda a una sensibilità contemporanea, in un paradosso spaziotemporale francamente strampalato e non poco ignorante.

Con questi quattro corti Wes Anderson compie un’azione puramente autoriale e al contempo generosa. Ci fa entrare nel suo laboratorio di sperimentazione visiva e narrativa e insieme ci dà la possibilità di rileggere Roald Dahl, ricordandoci cosa sono la letteratura e l’arte in generale e a cosa servono – cioè a niente di specifico o di utile nell’immediato.

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*Nel senso che non andrò al cinema a vedere Asteroid City. C’è differenza tra andare al cinema e andare a vedere un film al cinema. Se un film mi interessa davvero, non vado certo a perdermelo al cinema tra telefoni accesi, brusio, doppiaggio (il doppiaggio italiano spesso non è che brusio in una lingua inesistente), audio e video non sempre all’altezza. Al cinema vado per andare al cinema, che è sempre una bella esperienza, non per guardare un film che mi interessa davvero: quello lo faccio a casa, coi miei tempi, i miei schermi, le mie cuffie e le mie sigarette.