Guardare The Office per la prima volta

“Oggi nel parcheggio c’era un circo. Una fotocopiatrice faceva i numeri sul filo, una signora voleva dare via un bambino che sembrava un gatto. C’erano l’imitatore di Dwight e l’imitatore di Jim. Un omone ha schiacciato una tartaruga. Ho riso e ho pianto. Niente male per un’azienda di cibo per cani.”

Sono parole di Creed Bratton, dipendente dell’azienda Dunder Mifflin nella filiale di Scranton, Pennsylvania. In queste righe il signor Bratton, in passato chitarrista folk rock psichedelico, sembra quasi citare il Lawrence Ferlinghetti di Strade sterrate per posti sperduti, che così concludeva quel breve testo tra prosa e poesia:

“E ho riso+pianto+vissuto+sono morto. E non ho capito niente”.

Non ho idea se la citazione da parte di Bratton fosse intenzionale: nelle parole del suo diario (riprese nell’ormai celebre documentario The Office) l’anziano impiegato stava semplicemente raccontando un giorno come tanti della sua vita quotidiana in ufficio.

*

Una decina d’anni fa ho collaborato proprio con Dunder Mifflin in qualità di consulente per la comunicazione. In quel periodo ho potuto conoscere da vicino la realtà raccontata dal signor Bratton. Devo ammettere che dopo i primi meeting avevo il timore che, date le sue peculiarità, Dunder Mifflin si sarebbe presto rivelata il tipico cliente che prendi giusto perché non puoi tirarti indietro: parliamo di una grande società con diverse filiali in tutti gli Stati Uniti, per quanto in un settore, quello della carta, già all’epoca al collasso; di sicuro all’inizio non è stato facile trovare una, chiamiamola così, lingua comune con i suoi dirigenti.

Non posso dire ad esempio che il manager di filiale, il signor Michael G. Scott, fosse un tipo particolarmente simpatico, benché certamente di buon cuore; ogni volta che tentava di animare le riunioni con le sue battute seguiva un silenzio imbarazzante: era come se dovesse essere riempito dalle risate finte delle sitcom americane, invece era il momento, interminabile, in cui colleghi e dipendenti sbuffavano con mestizia o si lasciavano andare a singolari espressioni di sconforto. In seguito ho compreso quanto quel silenzio urlasse il desiderio di approvazione da parte dello stesso Scott, e ho cominciato a provarne pietà mista a compassione.

Come dimenticare poi tutte le volte che, appena arrivato in ufficio, vedevo con i miei occhi diversi dipendenti dormire in pieno orario lavorativo, oppure giocare a solitario sui loro computer. Tra questi lo stesso signor Bratton, peraltro addetto al reparto qualità (non ho idea se pensasse davvero di lavorare in un’azienda di cibo per cani: non mi sentirei di escluderlo).

Al contempo non posso nascondere di aver invidiato queste persone: mentre io andavo e venivo dall’Italia con la mia bella partita IVA, loro erano lì al calduccio dei loro contratti con tanto di ferie, permessi, malattia e tutto il resto. Oddio, malattia non direi: il funzionamento del sistema delle assicurazioni mediche negli USA non mi è mai stato del tutto chiaro, e so che spesso nella filiale di Scranton si discuteva proprio di quali patologie meritassero una copertura assicurativa e quali no. È il motivo per cui ero al corrente del fatto che il signor Kevin Malone del reparto contabilità soffrisse (e soffre tuttora, per quel che ne so) di ragadi anali: un’informazione che mi è rimasta nel cervello, e che a diversi anni di distanza non so ancora bene come processare.

Ma in fondo no, più che invidia alla lunga ho provato la sensazione di mettere piede in un posto esotico. È vero, è la stessa sensazione che provo sempre quando, da professionista esterno tutto smart working e reperibilità accaventiquattro, sono chiamato a collaborare con un’azienda che ha una sede fisica e della gente che ci lavora in orari fissi e prestabiliti – gente che vive in modo completamente diverso dal mio, con aspettative personali e prospettive di carriera che nel mio campo si risolvono in pretese assurde quanto irrealizzabili.

A contatto con la filiale di Scranton questo senso di esoticità era amplificato da quella che definirei una costante stranezza nell’ordinarietà, percepibile anche nel corso di un semplice meeting online. C’era sempre qualcosa che appariva singolarmente fuori posto in un contesto di, come definirla?, normale normalità: da un lato la moquette, il distributore automatico di spuntini e bevande, le piante grasse, i computer con il logo aziendale come sfondo… da un altro una scrivania sparita nel nulla o spostata inspiegabilmente nella toilette, una spillatrice nascosta in una massa gelatinosa oppure, come ho già detto, una battutaccia gettata lì a casaccio dal manager o dal suo assistente, e nessuno – sottolineo: nessuno – che rideva.

Era come se in quegli uffici albergasse qualcosa di silenzioso e strisciante, un’energia sinistra pronta a esplodere da un momento all’altro in un assassinio di gruppo o in un caldo abbraccio collettivo. Una forza oscura ben rappresentata – ma ci arrivo solo adesso, mentre scrivo queste righe – dal sibilo continuo delle stampanti o di non so quale altro marchingegno da ufficio: uno “hhhssss“ vivo e profondo perfettamente percepibile nei momenti di silenzio assoluto, che sembrava prodursi di continuo per far ammattire i dipendenti di Dunder Mifflin, o almeno il sottoscritto.

Devo anche dire che questa energia, di tanto in tanto, conosceva degli scoppi, delle esplosioni che non esiterei a definire creative. È il caso, ad esempio, del giorno in cui ho visto un dipendente – lo giuro, anche se stento a crederci io stesso – sfilare in bicicletta su un cavo sospeso a una trentina di metri d’altezza nel parcheggio, per motivi a me ignoti (una scommessa persa? un moto d’orgoglio in reazione a chissà quale competizione interna?). E non posso dimenticare neppure una battaglia di palle di neve finita in un bagno di sangue, o quell’altra volta in cui lo stesso manager e due dipendenti hanno preso a fare parkour su muri e cassonetti tra il parcheggio e il cortile dell’azienda – risultato: un dipendente con un polso rotto, l’altro con una forte contusione alla testa.

A lungo mi sono chiesto se non dovessi aspettarmi il peggio da un giorno all’altro, se non mi sarei dovuto aspettare la notizia della distruzione degli uffici di Scranton a causa di un’esplosione o di un incendio improvviso. A lungo mi sono domandato perché non arrivasse mai l’evento finale, lo scoppio di violenza definitiva… Finché pian piano si è fatta strada in me un’altra idea.

Prima ho accennato a un grande abbraccio collettivo. Ecco, nonostante i conflitti sopiti e le grandi tensioni sotterranee tipiche della vita d’ufficio, penso che le stranezze di cui ho avuto esperienza in Dunder Mifflin fossero per certi versi fisiologiche. Meglio, che fossero parte di un sistema sì disfunzionale, ma disfunzionale come può esserlo una famiglia, non la vita d’ufficio. Mi fa strano scriverlo, mi fa strano anche solo pensarlo, ma credo che a Scranton si sia realizzata quella grande menzogna secondo cui un’azienda può essere equiparata a una famiglia. In genere trovo che questo sia solo uno dei tanti stratagemmi con cui i manager più scarsi tentano di fregare i propri dipendenti, o di supplire a qualche mancanza affettiva o incapacità di relazionarsi con gli altri fuori dal lavoro (e certamente, mi spiace dirlo, questa seconda ipotesi spiegherebbe l’afflitta simpatia del signor Scott). Ma nel caso di Dunder Mifflin no, credo che le cose stessero proprio in questo modo (cioè: azienda = famiglia), conclusione cui sono giunto alla fine della nostra collaborazione.

In fondo cos’erano le battute di cattivo gusto, i sotterfugi, gli scherzi, se non un tentativo di superare la questione dell’alienazione e dello sfruttamento? Lavorando il giusto, o non lavorando affatto, lasciando insomma la questione della produttività, come dire?, molto sullo sfondo, i dipendenti della filiale di Scranton hanno trovato il tempo e lo spazio mentale necessari non solo per sopravvivere al lavoro d’ufficio, ma anche per concentrarsi sui legami, sull’affetto e in qualche modo sull’amore che inevitabilmente possono nascere – se non ci si ammazza prima – tra persone chiuse nello stesso posto per otto ore al giorno ogni santo giorno per diversi anni.

Dedicarsi allo sberleffo continuo, alla messa a punto dello scherzo perfetto, alle gare sportive improvvisate utilizzando della cancelleria e altro materiale da ufficio – a ben guardare, questi erano gli unici modi per far sì che l’ipotesi dell’assassinio o addirittura del suicidio di gruppo non prendesse corpo davvero, che prevalesse invece quella del grande abbraccio collettivo, come dicevo prima, a partire dal riconoscimento altrui, dei propri e altrui ammaccamenti. Come in una famiglia? Esatto, proprio come in una famiglia.

Non voglio esagerare, ma credo che i lavoratori di Scranton abbiano superato il problema del lavoro come necessità e costrizione semplicemente ignorandolo, rovesciando quindi la routine dell’ufficio in una serie di tanti piccoli e sadici riti ordinari, di tanto in tanto stravolti dai tipici episodi di follia gratuita che pure possono contribuire a ribaltare la noia di giornate tutte uguali. I dipendenti di Dunder Mifflin si sono rivelati dei veri creativi in un posto che sembrava fatto apposta per celebrare la banalità, il grigiore e la muffa esistenziale. Creativi nella quotidianità, nelle cose minuscole, dunque nella cura degli altri: credo sia questa la più autentica forma di creatività.

Come dicevo, questa è la conclusione cui sono arrivato sul finire della collaborazione con la filiale, in particolare dopo una riunione in sede, parlando con la signora Pamela Halpert, ex receptionist e in quel momento “office administrator” della filiale di Scranton. Quel pomeriggio eravamo eravamo entrambi molto provati dalla lunga riunione: io, lei, il signor Scott e l’assistente regionale Dwight K. Schrute III avremmo dovuto discutere di strategie di acquisizione di nuovi clienti e invece avevamo finito per impantanarci nella solita sequenza di domande esistenziali da ufficio – quanti caffè hai preso stamattina? Chi ha strappato la moquette in corridoio? È forse lo sbatter d’ali di un pipistrello, quello che proviene dai pannelli dal controsoffitto? E quel sibilo…?

In particolare io ero molto frustrato perché il mattino dopo sarei dovuto ripartire e avevo realizzato che per l’ennesima volta ero venuto per niente. Ore e ore di viaggio e giorni di permanenza in un posto che, per inciso, non mi aveva mai fatto impazzire come Scranton, per non concludere nulla. La signora Halpert provò a rincuorarmi dicendo che non importava, che tanto sarei stato pagato lo stesso, ma lo disse senza alcuna malizia, con un sorriso gentile che non intendeva insinuare nulla. Risposi che non era quello il problema. Il punto era che non li capivo, tutti quanti, non capivo come potessero stare lì ogni giorno senza dedicarsi neppure lontanamente alle tante cose da fare… Aggiunsi che se provavo a immaginarmi nei loro panni mi sentivo soffocare, e mentre lo dicevo mi sembrò quasi che il sibilo, quello “hhhssss“ dell’ufficio, diventasse quasi insopportabile. Pamela sorrise ancora e indicò un quadro appeso al muro: era un anonimo acquerello che raffigurava la sede della filiale di Scranton, col parcheggio e due o tre auto dei dipendenti. Mi confidò che l’aveva realizzato lei qualche anno prima. Pensai che volesse cambiare discorso, così improvvisai dei complimenti vaghi, del tutto insinceri. Lei proseguì: a quanto pare era una delle sue primissime prove, o almeno una tra le prime a essere stata esposta in pubblico, in una piccola mostra in qualche dimenticabile collettiva di pittori della domenica di Scranton. Disse che quando aveva saputo che avrebbe potuto esporre era molto emozionata, perciò aveva invitato tutti i colleghi al vernissage. Se ne erano presentati solo un paio, che per giunta erano andati via subito dopo aver ridacchiato dell’intera situazione. Alla fine, quasi in chiusura, arrivò anche il signor Scott, il quale – mi confidò Pamela – era l’ultima delle persone che avrebbe voluto vedere quella sera. Eppure il manager apprezzò il quadro, lo comprò e il giorno successivo lo appese tutto fiero qui in ufficio, proprio dov’era ora, davanti ai nostri occhi. Pamela aggiunse che sapeva di non valere granché come artista, che probabilmente aveva gettato al vento tutte le occasioni che aveva avuto nella sua vita per diventarlo o anche solo per fare altro che non fosse stare lì in ufficio ad aspettare che il tempo passasse – ma ehi, andava bene così. Ciò che contava di quel vernissage, concluse, non era solo la sorpresa del suo capo, ma anche il fatto che si fosse sentita delusa dai suoi colleghi: il fatto insomma che avesse delle aspettative su di loro la diceva lunga sulla sua vita d’ufficio, sui legami che aveva instaurato e che erano cresciuti di anno in anno.

Guardammo per un’ultima volta il quadro e lei bisbigliò qualcosa sulla bellezza nelle cose ordinarie che tuttavia non ricordo bene, perché a quel punto i miei pensieri avevano iniziato a battere sui tamburi e il sibilo era diventato vero e proprio rumore bianco su schermo guasto: le cose ordinarie, tutte quelle che nella mia vita straordinaria senza orari e senza regole, fatta di consulenze esterne, viaggi interminabili e pochi rapporti veri finivo puntualmente col perdermi. Tutte quelle cose che fanno della vita una cosa che vale la pena vivere mentre fai finta di porti dei traguardi, degli obiettivi da raggiungere a tutti i costi, e che non raggiungerai mai.

*

La conclusione della mia collaborazione con Dunder Mifflin affonda le sue radici proprio in questo atteggiamento da parte dei suoi dipendenti, ovvero nel superamento della questione della produttività dell’azienda, e nel conseguente paradosso. In fondo, questa gente non aveva bisogno di lavorare duro, di essere particolarmente produttiva… semplicemente perché lo era.

Su questo punto voglio essere molto chiaro, e voglio esserlo nei termini più comprensibili dalla maggior parte di imprenditori e lavoratori del nostro Paese: dati alla mano, l’atteggiamento di apparente negligenza dei dipendenti Dunder Mifflin non ha mai influito sui livelli di produttività dell’azienda. Mentre l’intero settore della carta finiva in malora, mentre l’azienda madre rischiava di farsi impallinare dai suoi stessi azionisti, la filiale di Scranton andava a gonfie vele grazie all’incomprensibile ma comunque affabile gestione del signor Scott, all’ambigua compattezza del reparto contabilità e alle incredibili capacità dei suoi venditori più sornioni, tra i quali vanno menzionati almeno il simpatico signor Jim Halpert (sì, moglie e marito lavoravano insieme, e devo dire che erano anche piuttosto carini) e il già citato signor Schrute, nel cui bucolico (e anche un po’ inquietante) bed and breakfast in aperta campagna ho alloggiato più di qualche volta nelle mie trasferte negli USA.

Non sono in grado di stabilire se gli ottimi risultati della filiale di Scranton fossero conseguenza dell’approccio creativo al lavoro da parte dei dipendenti (manager incluso) o se al contrario questo approccio molto disinvolto, per così dire, fosse dovuto al fatto che le cose andassero bene e che non ci fosse motivo di impegnarsi più di tanto, ma è proprio per via di questi ottimi risultati che si è interrotto il rapporto di collaborazione tra me e la filiale di Scranton, PA, della Dunder Mifflin.

Per farla breve, laggiù non avevano alcun bisogno dei miei servizi. Sono convinto che un’azienda solida non abbia alcuna necessità di comunicare troppo all’esterno, pertanto la mia consulenza finisce quando il cliente raggiunge questa consapevolezza e si arriva a una separazione del tutto consensuale, in cui entrambe le parti sono soddisfatte: io ho dimostrato la mia teoria, mentre l’azienda può tagliare l’ennesima, inutile consulenza esterna.

Per la verità è molto raro che questa mia teoria di comunicazione sobria e frugale, invero un po’ masochista se penso alle mie entrate, trovi applicazione concreta (tutti vogliono comunicare, a tutti i costi, anche quando non hanno nulla da dire, a volte neppure da vendere), ma con Dunder Mifflin è andata proprio così e non posso certo lamentarmi.

Per il momento non ho ancora visto The Office, il documentario che racconta la vita dei lavoratori Dunder Mifflin della filiale di Scranton e che pare abbia riscosso un discreto successo. Non so se lo farò mai. Piuttosto, ogni volta che mi guarderò indietro penserò di dovere più di qualcosa a quei lavoratori, a quelle persone, per il tempo passato insieme. Anche se non so bene cosa.

*

Ho scritto queste righe molto tempo fa. Da allora ho cambiato lavoro, città, amicizie e tutto il resto. Se ripenso a quegli anni – anni in cui il marketing stava per diventare il mostro famelico che avrebbe divorato ogni altra forma di comunicazione tra esseri umani – mi sembra di essere stato ubriaco tutto il tempo. Meglio, di aver costantemente avuto a che fare con i postumi di una terribile sbronza, per cui non si è mai del tutto lucidi, mai del tutto pronti ad affermare con fermezza: “Questo va bene, si può fare, non offenderà nessuna delle persone a cui voglio bene e neppure la mia intelligenza, mentre questo no, non è proprio possibile se si ha un minimo di coscienza e di buon gusto”. Ma è andata così e non posso farci nulla.

Lo scorso inverno mi sono quindi deciso a guardare The Office. Quando ho collaborato con Dunder Mifflin mi è capitato di incrociare spesso la troupe al lavoro sul documentario, anche se in quelle occasioni non si filmava granché: a quanto pare la produzione riteneva che la presenza di consulenti esterni, benché sporadica o proprio in virtù di questo, avrebbe alterato la materia stessa del documentario. Invece io credo che com’è noto sia proprio l’osservatore di un certo fenomeno a finire inevitabilmente con l’alterare per primo ciò che sta osservando.

Non mi spiego altrimenti la strana sensazione che ho provato guardando The Office. Saranno stati i tagli di montaggio, il dover stare nei venti-quaranta minuti di durata del singolo episodio o la banale constatazione che rappresentare la realtà significa sempre contribuire a renderla un po’ più finta di quel che è, ma seguendo le avventure del signor Scott e soci (mai avrei pensato di poterle definire “avventure”) ne ho ricavato la stessa impressione che si ricava limitandosi a guardare solo le gag di una certa serie tv su Youtube o addirittura i blooper, le scene tagliate perché a questo o a quell’attore gli era presa la ridarella e non riusciva a recitare le sue battute senza scoppiare in lacrime.

Dov’era tutto il resto? Non voglio dire “dov’ero io?”, ma mi è sembrato che mancasse quella materia, quella vera che tanto stava a cuore alla produzione. Guardando The Office mi sembravano tutti pazzi scalmanati, come usciti da un reportage di David Foster Wallace su qualche stramba comunità di americani depressi o affetti da manie ossessivo-compulsive (ora che ci penso, il CEO di Dunder Mifflin, che ho incontrato solo in un paio d’occasioni, si chiamava proprio David Wallace: singolare coincidenza, in effetti).

Allora ho sentito una, come definirla?, strana e insaziabile fame di realtà, e così ho fatto un giro di telefonate tra conoscenze comuni e sono riuscito a recuperare il contatto del signor Scott. A quanto pare Michael conservava ancora il mio numero, come scoprii dopo solo due o tre squilli d’attesa.

Ollà, amico, como stai?”
“Qui tutto bene, Michael. Spero anche da te. Ho visto il documentario, finalmente.”
“Oh, davvero? Che te n’è parso?”
“Strano, direi… Siete voi, ma non siete propriamente voi. O forse è solo la memoria che m’inganna. Cioè, Dwight era davvero così… strambo? E davvero ha licenziato Kevin per quella storia del numero magico?”
“Oh, certo, era tutto vero. Ma forse non eravamo poi così fuori di testa… Se è quello che intendi.”
“Non so, Michael… L’ho trovato offensivo. Nei vostri confronti, voglio dire.”
“Be’, in effetti al giorno d’oggi c’è un mucchio di gente che si offende per qualsiasi cosa, ma non… Devi scusami. Holly? Cosa c’è?”
Sentii una voce femminile che chiamava da lontano. Immaginai Michael coi capelli bianchi e il sorriso gentile, intento a godersi il fresco della sua casa di campagna, mentre sua moglie lo chiamava per la cena con i figli adolescenti.
“Oh, non volevo trattenerti” dissi.
“Figurati, è stato un piacere sentirti. Ma devo proprio andare.”
“Piacere mio, Michael. Davvero un grande piacere.”
That’s what she said!”, e per un attimo riecco quel silenzio imbarazzante, per una volta riempito dalle nostre risate.

(Minimaetmoralia.it, 13 luglio 2023)