Essere lì, essere gli altri: dentro The Last of Us

Nonostante tutto, il posto più strano in cui possiamo stare sono ancora gli altri. Strano perché difficile, per lo più impossibile: essere gli altri è comprenderne a fondo le motivazioni più assurde, assorbirne le contraddizioni e farci carico delle loro sofferenze – soprattutto se l’altro è quanto di più lontano da noi. A questo, forse, servono le storie, infinitamente più del discorso pubblico corrente se non in aperto contrasto, o almeno come antidoto ad esso.

Una storia che negli ultimi dieci anni è riuscita a farci scivolare dolorosamente nel corpo e nel sangue degli altri, peraltro in un mondo pandemico, brutale e finito, è quella raccontata dalla serie di videogiochi The Last of Us – Part I (2013) e Part II (2020), sviluppata da Naughty Dog per Sony. Alla fine del secondo capitolo si arriva completamente stremati dal rovesciamento della prospettiva, dalla possibilità di essere e interpretare ciò che di solito, nei videogiochi, è ridotto a semplice oggetto: il nemico, con suoi i sentimenti, i suoi valori e la sua comunità di riferimento.

Rispetto a un film o a un romanzo, un videogioco ha i suoi vantaggi formali e strutturali nell’attuare l’immersione nell’altro: non solo in un corpo o in una storia, ma in un altrove digitale che investe e stimola sensorialmente chi gioca, e per intero; se la cosa funziona, quest’immersione diventa anche affettiva.

L’intensità delle vicende di The Last of Us, mescolata a un gameplay particolarmente riuscito e a una maturità drammaturgica in parte inedita per il medium videoludico, ha fatto sì che milioni di videogiocatori e di videogiocatrici siano state Joel e Ellie, che abbiano amato questi personaggi mentre The Last of Us richiedeva loro un enorme investimento emotivo, mettendo in scena tutta la violenza immaginabile tra essere umano e essere umano, interrotta qui e lì da inaspettati momenti di speranza.

Allora ecco un altro posto molto strano dove stare – i videogiochi, appunto, ma non è di questo che voglio parlare.

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La prima stagione della serie HBO The Last of Us si è da poco conclusa e ha coperto l’intero arco narrativo del primo capitolo del videogioco, Part I, e del suo breve spin-off Left Behind, mentre per il futuro possiamo aspettarci che Part II possa offrire materiale per un’altra stagione o due.

L’adattamento di Part I ha generato sia ansia che grandi aspettative tra giornalisti e critici di settore. The Last of Us rappresentava l’occasione giusta per dimostrare finalmente che è possibile ricavare un buon adattamento cinematografico e seriale a partire da un videogioco, il che avrebbe significato maggiore legittimazione per un’industria che da anni smuove più quattrini di ogni altra in campo culturale, ma fatica a essere presa sul serio quando si parla di cultura “alta” (e forse è meglio così, qualunque cosa voglia dire).

Da Tomb Raider a Mortal Kombat, è inutile fare l’elenco completo delle pessime trasposizioni occorse nel tempo (mentre vale la pena ricordare che di recente la serie Arcane su Netflix, tratta dal videogioco League of Legends, aveva già indicato una buona strada da seguire). Soprattutto negli anni ‘90, i tentativi di portare al cinema le storie di Super Mario e compagnia avevano fallito miseramente, tanto da diventare concime per meme e citazioni ironiche nell’internet contemporanea. Ma anche il percorso inverso, specie con i tie-in (i videogiochi tratti da film di successo) dello stesso periodo, ha conosciuto alterne fortune, senza dimenticare il clamoroso buco nell’acqua di E.T. per Atari 2600 nel 1982: un disastro assoluto, che finì col mettere in crisi l’ancora giovane ma già arrembante industria videoludica dell’epoca.

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Col senno di poi, era oggettivamente difficile dubitare della buona riuscita dell’adattamento di The Last of Us. La serie videoludica si prestava particolarmente grazie a un approccio di suo già molto cinematografico, sia per regia che per cura dei dialoghi, e a una storia grandiosa, per quanto fortemente derivativa all’interno del genere post-apocalittico e con un enorme debito nei confronti de La strada di Cormac McCarthy. Inoltre a lavorare all’adattamento c’era gente in gamba, a partire da Craig Mazin (Chernobyl) e soprattutto da Neil Druckmann, creatore, sviluppatore e sceneggiatore della serie originale per Naughty Dog.

In fondo, questa prima stagione di The Last of Us ha fatto una cosa molto semplice: ha spogliato degli elementi di puro gameplay il videogioco e ha messo in scena la sua storia in modo maturo come nell’originale, ampliandone alcuni aspetti e condensandone o addirittura eliminandone altri che, senza la possibilità di un’interazione diretta, non avrebbero funzionato o sarebbero risultati poco credibili sul piccolo schermo. Non si trattava certo di un compito fuori dalla portata dei suoi creatori – dato il loro conclamato talento, e dati pure i mezzi produttivi a disposizione di HBO – specie se affrontato senza inutili manie di grandezza o, per converso, senza alcun un senso d’inferiorità verso l’autorialità televisiva.

A stagione finita, insomma, credo sia più interessante analizzare l’aspetto della riscrittura felice di una storia di suo già compiuta da parte di Neil Druckmann, piuttosto che la questione dell’adattamento riuscito da un mezzo all’altro. La disinvoltura e allo stesso tempo il passo fermo e convinto – l’autorevolezza, in altri termini – con cui The Last of Us Part I è diventato uno show televisivo racconta di quanto sia importante riuscire a mantenere la giusta distanza dal testo di partenza, modificandolo dove occorre e preservandone al tempo stesso il senso più profondo: è un fatto raro e non è da tutti riuscire a tornare sui propri passi con questa delicata libertà e uno sguardo così aperto, in un certo senso anche molto laico, verso le proprie possibilità e capacità artistiche.

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Questo tipo di sguardo investe l’opera in riscrittura su più fronti. Prima di tutto le dimensioni, l’andamento e il ritmo: la prima stagione di The Last of Us ha una disposizione e una struttura anche un po’ strane, nel senso che in generale la serie è molto asciutta, punta al sodo e segue fondamentalmente lo scheletro degli avvenimenti del primo capitolo del videogioco, peraltro con pochi episodi di una durata piuttosto contenuta. Però poi improvvisamente si apre e si lascia andare a lunghe digressioni scoprendo nuovi raccordi inaspettati, dando corpo (e seconde vite, e seconde chance) a personaggi che nel materiale originale avevano uno spazio differente o erano assenti. È il caso della storia d’amore tra Bill e Frank, già nel terzo episodio, o della nuova caratterizzazione di Henry e del fratellino sordomuto Sam, senza dimenticare l’ossessione per la vendetta di un personaggio del tutto inedito come Kathleen o l’apparizione della mamma di Ellie, Anna (che qui ha il volto di Ashley Johnson, doppiatrice della stessa Ellie nel gioco).

A questa ferma e rispettosa distanza partecipa anche la riscrittura, minima, dei protagonisti Joel e Ellie: sono gli stessi di Part I, ma sono anche diversi, grazie soprattutto al lavoro degli attori che li interpretano. Il Joel di Pedro Pascal sembra più vulnerabile e ammaccato rispetto a quello del gioco (e infatti, a differenza dell’originale interpretato da Troy Baker, ci impiega un po’ a convincerci che dietro il padre in lutto ci sia quel mostro assassino e disturbato di cui tutti parlano), mentre la Ellie di Bella Ramsey è un po’ come… il Chisciotte riscritto parola per parola da Pierre Menard secondo Borges: è lei, ma non è lei. Però è lei, più di lei, anche se non può essere lei. Come spiegarlo diversamente?

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Tutto sommato, credo che questi aspetti siano del tutto secondari se parliamo della qualità di The Last of Us, o meglio di ciò che come opera riesce a restituire in termini di emozioni. Come il videogioco, la serie è dura, a tratti brutale, profonda. Riesce a brillare di speranza nei momenti più crudi e risulta tormentante e angosciosa non appena quella speranza dà l’impressione di poter durare a lungo. Dà vita a un mondo devastato e inospitale, poetico e disturbante nella selvatichezza del paesaggio ripreso dalla natura (laddove anche gli infetti sono ormai un elemento naturale), a cui è tuttavia molto difficile non affezionarsi.

In particolare, l’ottava e penultima puntata della serie è quella in cui The Last of Us diventa The Last of Us. Il livello di violenza e crudezza di questo episodio è quello costante nella controparte videoludica (in cui il cortocircuito tra fotorealismo/violenza/piacere è totale e a tratti insostenibile), così come il tono disperante e la quasi impossibilità di separare il bene dal male, i buoni dai cattivi.

Non solo, questa puntata pone le basi per ciò che sarà la serie anche in futuro: Joel dovrà ancora misurarsi con il suo lato vulnerabile e violento, e qui – nel trauma dell’incontro con David, manipolatore, cannibale e pedofilo – è molto probabile che Ellie abbia cominciato a trasformarsi nella donna irrisolta, per usare un torbido eufemismo, di Part II. Anche in futuro, se tutto andrà come nella serie videoludica, come spettatori dovremo fare i conti con le conseguenze delle terribili azioni di quelli che in teoria sono i buoni, o quantomeno i personaggi verso cui siamo portati a identificarci, almeno finché la prospettiva non sarà nuovamente rovesciata e ci troveremo dall’altra parte.

Questo sovvertimento di torti e ragioni, di dilemmi morali e parti sbagliate (o mai giuste del tutto) c’è stato ovviamente anche nel finale della prima stagione. Quando Joel mente a Ellie dopo aver ucciso ancora per proteggerla, sacrificando la salvezza del genere umano per tenere a sé, pateticamente, un surrogato di sua figlia, noi siamo con lui ma siamo anche con Ellie. Sappiamo quanto egoismo, ossessione e autentico dolore siano mescolati e inscindibili nel cuore di Joel, ma sappiamo anche quanto faccia male una menzogna raccontata da un adulto a una ragazzina che spera di poter aiutare gli altri: lo sappiamo fin da piccoli e continuiamo a soffrirne crescendo. Soprattutto se a farsi carico delle conseguenze di quella menzogna (e del contesto di estrema violenza in cui ha preso forma, da cui quella ragazzina vorrebbe affrancarsi e redimersi) saranno appunto Ellie e il suo mondo: il mondo a venire, quello che andava salvato – mentre da adulti continuiamo a chiederci: cosa avremmo fatto al posto di Joel?

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Restituendo complessità e pluralità di voci ai suoi personaggi, la prima stagione di The Last of Us è riuscita a diventare in parte anche altro da sé, dal suo materiale di partenza. Lo ha fatto con coraggio e personalità, tanto da rappresentare, per molti critici, un nuovo punto di riferimento per la serialità televisiva.

Sull’onda di questo entusiasmo si è rinnovata la speranza che altri franchise videoludici possano essere portati con successo al cinema o sul piccolo schermo. Non so come andrà, così come chiunque abbia giocato The Last of Us sa che non tutti i videogiochi sono come The Last of Us – e per fortuna, data la sua intensità. Ma una cosa è certa: se non avete mai giocato The Last of Us e questa prima stagione vi ha coinvolto al punto giusto, se siete riusciti a sopportare la sua tensione continua e l’idea che anche nel macero e nell’orrore di una civiltà finita si possa ricercare, con sofferenza, la speranza – sappiate allora che “giocare” The Last of Us è molto peggio, o molto meglio, o entrambe le cose: perché viaggerete davvero per città sventrate e paesaggi riconquistati dalla natura con Joel, Ellie, Tess, Tommy, Marlene, Abby e tutti gli altri, sarete davvero lì con loro, sarete davvero loro.

(Minimaetmoralia.it, 15 marzo 2023)